Abbiamo perso per gravi accondiscendenze arbitrali nei confronti degli italiani. Questo dissi, fu così. E non solo nella finale contro noi ceki, pure nei quarti con la Spagna, pure in semifinale contro l'Austria.
L'elenco sarebbe lungo. A noi negarono un rigore netto su Krcil, saremmo andati sul 2-0, non ci avrebbero raggiunti a sette minuti dalla fine e battuti nei supplementari. Ma dovevo immaginarlo che sarebbe andata così. L'avevo intuito due anni prima, quando con lo Slavia andammo a Torino in casa della Juve per la Coppa Europa. Loro avevano perso 4-0 a Praga, si erano molto lamentati del nostro pubblico. Cercavano la rimonta nel ritorno e sul 2-0 per loro, dagli spalti, mi arrivò un sasso addosso. Ricordo che mi portarono negli spogliatoi e i miei compagni si rifiutarono di proseguire. Nessun italiano l'ha mai raccontata così. Dissero che avevo simulato, l'arbitro ci diede partita persa. I rapporti diplomatici fra i due Paesi erano già pessimi. Peggiorarono. Noi tornammo in patria da eroi, come le vittime della violenza fascista. Stessa cosa dopo il torto del '34. Nella finale dei Mondiali avevo fatto tre parate da favola su Meazza, Orsi e Schiavio, fra il 13' e il 17'. Poi un'uscita spericolata sui piedi di Schiavio. Invece finì come finì, la nostra gente ci portò in trionfo dalla stazione centrale al Municipio, deposi una corona di fiori sulla tomba del milite ignoto, il sindaco Karel Baxa volle riceverci.
La mia Cecoslovacchia aveva almeno cinque calciatori di classe raffinatissima: Krcil, Juniek, Puc, Svoboda e Nejedlý. Poi c'ero io, František Plánička. Zamora diceva che ero più bravo di lui. Non dategli retta. Falso. Raccontava certe cose perché non poteva vedersi in campo, ma io - io sì che dall'altra porta vedevo tutto. Vedevo lui, il suo stile, la sua eleganza. Io non li avevo. Io avevo i miei riflessi e la mia agilità. Non era poco, ma la coreografia non era il mio forte. Non amavo i bluff. Non ero classico come Platko, non ero agile come De Prà. Ero robusto, irruento, questo sì, mi lanciavo coraggioso tra i piedi degli avversari: tutti sapevano che ero majster robinzonád, il maestro del tuffo. Ero Pražská mačka, il gatto di Praga.
Sono nato lì, nel quartiere Zizkov, Praga era parte dell'impero austro-ungarico. Forse per questo mi sono sempre sentito un danubiano, oltre che un cecoslovacco. I miei si trasferirono poi in una casa molto semplice al Belvedere, su un terreno non distante da quelli di Slavia e Sparta, i due club di calcio. Noi ragazzini giocavamo a calcio in strada, un giorno passa un dirigente dello Slavia e ci vede. Venite con me, fa, vi prendo tutti. Avevo 12 anni e giocavo in attacco, cambiai ruolo allo Slovan, due anni dopo, perché si era fatto male il portiere. Un po' controvoglia, se devo essere sincero. I portieri sono le Cenerentole del calcio. La fama è il principe con cui ogni tanto danziamo, poi arriva mezzanotte e ce ne torniamo alla nostra vita grigia. Ero alto un metro e 72, niente di che. Quando al Bubentsch rimasi per nove partite senza prendere gol, venne a vedermi un osservatore dello Sparta. Mi bocciò, non ho mai saputo il suo nome.
Com'è andata, lo sapete. Tornai allo Slavia, lentamente presi il posto del mio compagno più esperto, Josef Štaplík. Ho finito per giocare più di 1.400 partite ufficiali. Campionati, Coppe, record. Nel campionato 1929-30 vincemmo tutte le 14 partite, presi solo 13 gol. Almeno un trofeo all'anno vinto fino al '35. Ho girato l'Europa con il calcio, il mondo no. L'Uruguay invitò la Cecoslovacchia al mondiale del '30, ma non andammo. Viaggio lungo e costoso. Altrimenti sarei stato il primo in campo in tre mondiali di fila. La prima volta che lo Slavia doveva uscire dal Paese - per una partita di Coppa Europa - io non avevo l'età. Allora mi falsificarono i documenti, mi diedero un nuovo cognome, quel giorno mi chiamavo Wotruba. Ci vuole una fantasia di un certo livello per trasformare Plánička in Wotruba. A Vienna vincemmo 4-1, tutti i giornali scrissero dei miracoli di questo portiere sconosciuto. Wotruba, quanto ti ho odiato.
Ho giocato per sedici anni, mai ammonito, mai espulso. L'Unesco volle premiarmi per la mia sportività, era il 1985, quarantasette anni dopo la mia ultima partita internazionale. L'avevo giocata a Bordeaux, ai Mondiali del '38, contro il Brasile. Quarti di finale. Una battaglia. Ci furono tre espulsioni, tutte tardive perché nel frattempo ci eravamo ammazzati di botte. Nejedlý dovette lasciare il campo con una gamba rotta, io dopo un impatto con il brasiliano Perácio e contro il palo mi rialzai con un braccio fratturato e la clavicola lesionata. Rimasi in campo, supplementari compresi, senza prendere gol. Ma nella ripetizione due giorni dopo non c'ero. Brasile avanti, noi a casa. La stampa francese mi elesse migliore portiere del torneo: "Molto spettacolare e di grande concretezza. Nessuno ha le sue qualità acrobatiche. I suoi voli fra i pali sono pezzi forti dello spettacolo calcistico. Per tutti questi motivi, assieme alla sua capacità di guidare la difesa con l'esempio, è senza dubbio il miglior gardien de but del football mondiale".
Un grande giornalista italiano, Gianni Brera, anni dopo mi avrebbe definito il piccoletto di maggior classe tra i pali. Nel '37 Vittorio Pozzo su "la Stampa" scrisse che Plánička è un portiere che non invecchia. Gli italiani mi hanno fatto soffrire, ma mi hanno amato. Peppino Meazza raccontava che per tutta la vita avrebbe conservato nella sua retina il tiro di Schiavio e un'ombra nera, l'ombra della mia mano che aveva sfiorato il pallone e l'aveva mancato di un sospiro. A 66 anni giocavo ancora per beneficenza e ne avevo 90 quando in una di quelle cerimonie gonfie di malinconia diedero un premio ai miei ricordi. Presi la targa e dissi che il mio più grande desiderio, prima di morire, sarebbe stato rivedere lo Slavia vincere il titolo. Almeno una volta. Non succedeva dal '47, ma nel '96 accadde. Davvero. E io lo vidi.
Due mesi dopo quello scudetto dello Slavia, Plánicka morì. In Repubblica Ceca fu lutto nazionale. Il calciatore Poborský, che quel giorno avrebbe dovuto firmare il contratto con il Manchester United, fece slittare l'appuntamento per essere presente al funerale.
La mia Cecoslovacchia aveva almeno cinque calciatori di classe raffinatissima: Krcil, Juniek, Puc, Svoboda e Nejedlý. Poi c'ero io, František Plánička. Zamora diceva che ero più bravo di lui. Non dategli retta. Falso. Raccontava certe cose perché non poteva vedersi in campo, ma io - io sì che dall'altra porta vedevo tutto. Vedevo lui, il suo stile, la sua eleganza. Io non li avevo. Io avevo i miei riflessi e la mia agilità. Non era poco, ma la coreografia non era il mio forte. Non amavo i bluff. Non ero classico come Platko, non ero agile come De Prà. Ero robusto, irruento, questo sì, mi lanciavo coraggioso tra i piedi degli avversari: tutti sapevano che ero majster robinzonád, il maestro del tuffo. Ero Pražská mačka, il gatto di Praga.
Sono nato lì, nel quartiere Zizkov, Praga era parte dell'impero austro-ungarico. Forse per questo mi sono sempre sentito un danubiano, oltre che un cecoslovacco. I miei si trasferirono poi in una casa molto semplice al Belvedere, su un terreno non distante da quelli di Slavia e Sparta, i due club di calcio. Noi ragazzini giocavamo a calcio in strada, un giorno passa un dirigente dello Slavia e ci vede. Venite con me, fa, vi prendo tutti. Avevo 12 anni e giocavo in attacco, cambiai ruolo allo Slovan, due anni dopo, perché si era fatto male il portiere. Un po' controvoglia, se devo essere sincero. I portieri sono le Cenerentole del calcio. La fama è il principe con cui ogni tanto danziamo, poi arriva mezzanotte e ce ne torniamo alla nostra vita grigia. Ero alto un metro e 72, niente di che. Quando al Bubentsch rimasi per nove partite senza prendere gol, venne a vedermi un osservatore dello Sparta. Mi bocciò, non ho mai saputo il suo nome.
Com'è andata, lo sapete. Tornai allo Slavia, lentamente presi il posto del mio compagno più esperto, Josef Štaplík. Ho finito per giocare più di 1.400 partite ufficiali. Campionati, Coppe, record. Nel campionato 1929-30 vincemmo tutte le 14 partite, presi solo 13 gol. Almeno un trofeo all'anno vinto fino al '35. Ho girato l'Europa con il calcio, il mondo no. L'Uruguay invitò la Cecoslovacchia al mondiale del '30, ma non andammo. Viaggio lungo e costoso. Altrimenti sarei stato il primo in campo in tre mondiali di fila. La prima volta che lo Slavia doveva uscire dal Paese - per una partita di Coppa Europa - io non avevo l'età. Allora mi falsificarono i documenti, mi diedero un nuovo cognome, quel giorno mi chiamavo Wotruba. Ci vuole una fantasia di un certo livello per trasformare Plánička in Wotruba. A Vienna vincemmo 4-1, tutti i giornali scrissero dei miracoli di questo portiere sconosciuto. Wotruba, quanto ti ho odiato.
Ho giocato per sedici anni, mai ammonito, mai espulso. L'Unesco volle premiarmi per la mia sportività, era il 1985, quarantasette anni dopo la mia ultima partita internazionale. L'avevo giocata a Bordeaux, ai Mondiali del '38, contro il Brasile. Quarti di finale. Una battaglia. Ci furono tre espulsioni, tutte tardive perché nel frattempo ci eravamo ammazzati di botte. Nejedlý dovette lasciare il campo con una gamba rotta, io dopo un impatto con il brasiliano Perácio e contro il palo mi rialzai con un braccio fratturato e la clavicola lesionata. Rimasi in campo, supplementari compresi, senza prendere gol. Ma nella ripetizione due giorni dopo non c'ero. Brasile avanti, noi a casa. La stampa francese mi elesse migliore portiere del torneo: "Molto spettacolare e di grande concretezza. Nessuno ha le sue qualità acrobatiche. I suoi voli fra i pali sono pezzi forti dello spettacolo calcistico. Per tutti questi motivi, assieme alla sua capacità di guidare la difesa con l'esempio, è senza dubbio il miglior gardien de but del football mondiale".
Un grande giornalista italiano, Gianni Brera, anni dopo mi avrebbe definito il piccoletto di maggior classe tra i pali. Nel '37 Vittorio Pozzo su "la Stampa" scrisse che Plánička è un portiere che non invecchia. Gli italiani mi hanno fatto soffrire, ma mi hanno amato. Peppino Meazza raccontava che per tutta la vita avrebbe conservato nella sua retina il tiro di Schiavio e un'ombra nera, l'ombra della mia mano che aveva sfiorato il pallone e l'aveva mancato di un sospiro. A 66 anni giocavo ancora per beneficenza e ne avevo 90 quando in una di quelle cerimonie gonfie di malinconia diedero un premio ai miei ricordi. Presi la targa e dissi che il mio più grande desiderio, prima di morire, sarebbe stato rivedere lo Slavia vincere il titolo. Almeno una volta. Non succedeva dal '47, ma nel '96 accadde. Davvero. E io lo vidi.
Due mesi dopo quello scudetto dello Slavia, Plánicka morì. In Repubblica Ceca fu lutto nazionale. Il calciatore Poborský, che quel giorno avrebbe dovuto firmare il contratto con il Manchester United, fece slittare l'appuntamento per essere presente al funerale.
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