sabato 1 febbraio 2014

Castilho, il portiere che si fece amputare il mignolo


Mancavano sette giornate alla fine del campionato e il mignolo della mia mano sinistra si piegò per la quinta volta in pochi mesi. Il dottore Newton Paes Barreto non sapeva come dirmelo. Una questione di cattiva calcificazione, il dito era ormai irrimediabilmente storto. Sarei dovuto rimanere fuori due mesi e pensare a guarire, avrei dovuto lasciare la porta a Caetano da Silva Nascimento detto Veludo, un ex scaricatore di porto che era la mia riserva. Con il Fluminense in corsa per il titolo, risposi al medico, non se ne parla proprio. Quanto è vero che mi chiamo Carlos José Castilho.


Veludo non era una riserva qualunque. Era un signor giocatore. Ai Mondiali del '54 in Svizzera, fatto curioso e straordinario, il Brasile aveva chiamato sia me sia lui, primo e secondo portiere in uno stesso club. Quando il mignolo saltò di nuovo, tre anni dopo, ero già trentenne ed ebbi paura che con Veludo non sarei mai più tornato titolare. Scartavo l'idea di giocare ancora sul dolore, ma stavo perdendo fiducia in me, non mi sentivo sicuro come sempre. Allora chiesi al dottore se ci fossero altre soluzioni. Una ci sarebbe, mormorò lui evitando di guardarmi. Fissò il vuoto e disse Potremmo amputare il mignolo. Restammo zitti. Si sentiva solo il rumore dei miei pensieri. Un pezzettino, aggiunse, la parte superiore. Mia moglie era contraria, era contrario pure Barreto. Ma a me servì poco per decidere, pensai che sapevo nascondere bene il mio dolore, gli dissi Tagliami il dito dottore, che voglio vincere il campionato. La mattina dopo entrammo in sala operatoria alle otto meno un quarto, le ultime parole sentite prima che l'anestesia facesse effetto furono Carlos tu sei pazzo.

Rientrai dopo due settimane, come il dottore mi aveva promesso. Rimasi titolare, vincemmo il titolo e con sole nove dita e mezzo l'anno dopo parai 6 calci di rigore. I tifosi aggiunsero un soprannome, San Castilho, a quello che avevo già. Mi chiamavano Latteria perché a tredici anni, a dorso di un asino, consegnavo il latte nel paese. I soldi del negozio di mio padre Ezequiel non bastavano più. Latteria era diventato il nome che con cattiveria usavano soprattutto i miei avversari: in quegli anni in Brasile era sinonimo di uomo fortunato. Era successo che un lattaio di Rio avesse vinto per due volte in poco tempo alla lotteria, per questo io ero Latteria quando un pallone picchiava su un palo, oppure quando ero spiazzato e mi salvava una traversa. Una volta nel '51 gli attaccanti dell'America Rio ne colpirono quattro in una sola partita.

Fortunato. Io. Così dicevano. Senza sapere niente di me, senza sapere che mamma Mariana se n'era andata lasciandomi a quindici anni con un buco nello stomaco. Fortunato. Io. Che ho avuto Gilmar davanti, gli ho fatto da riserva in due Mondiali. Gilmar-Djalma Santos-Nilton Santos. Il grande Brasile, il mondo lo ricorda così dal '58. Ma Castilho-Djalma Santos-Nilton Santos esistevano già nel '54. Titolari ai Mondiali, anche se non andammo benissimo, uscimmo ai quarti di finale dopo una partita durissima con l'Ungheria. Una battaglia, calci, pugni, le loro provocazioni. Due espulsi, un palo di Didì, un rigore negato a noi, una rissa finale. Negli spogliatoi Puskas spaccò una bottiglia in testa a Pinheiro.

Quattro anni prima ero stato il vice del povero Barbosa. Poi avevo vendicato lui e tutto il Paese dalla vergogna del Maracanaço andando a vincere nel '52 il campionato panamericano in Uruguay. Non è la stessa cosa, lo so, eppure prima d'allora il Brasile non aveva mai vinto un titolo fuori dal Paese. Fu così, un po' per volta, che tutti scoprirono quanto fossi bravo a nascondere le cose che mi portavo dentro. Io scambiavo il verde con il rosso, il giallo mi pareva verde, ero daltonico. Le partite in notturna cominciarono a diventare una moda, ma il pallone bianco che veniva usato al posto di quelli marroni era più difficile da distinguere. Tienilo sempre d'occhio, si raccomandava il dottore, anche quando è lontano. E io così facevo. Certe volte lo vedevo sbucare all'improvviso, come un proiettile partito da un caos indistinto, ne scorgevo la scia, imprendibile, e restavo fermo. Fino a essere scosso da un rumore di legno, toc, la palla sul palo. Latteria.

A vivere immerso in quel buio di colori mi venne un'idea. Pensai che togliendo la maglia nera da portiere avrei privato gli avversari del vantaggio che avevano su di me. Volevo mimetizzarmi, come il pallone ai miei occhi sul campo. Cominciai a indossare un maglione grigio chiaro, così mi confondevo con lo sfondo. Ero in porta pure il giorno in cui rubarono un gol a Pelé. Lui del Santos, io del Fluminense. Manca poco alla fine del primo tempo quando O Rei prende la palla e si fa tutto il campo. Procede a zig zag fra Edmilson e Waldo Machado, poi salta Clóvis, Altair e Pinheiro, si lascia dietro Jair Marinho e arriva davanti a me. Sembrava una nave in slalom tra le onde. Fece un finta e mi tenne lì, lasciò che il pallone decollasse sopra la mia testa e quando ricadde c'era sempre lui a raccoglierlo per un attimo, con il collo del piede, prima di lasciarlo andare lento e irriverente in fondo alla mia rete. In Brasile lo chiamano il gol della targa, perché il giorno seguente allo stadio ne misero una con la scritta: "In questo campo il 5 marzo '61 Pelè segnò il gol più bonito del Maracanà". C'erano due tv e tre telegiornali, ma il filmato sparì, non esiste più, e se al mondo d'oggi non esiste più per la televisione qualcuno potrebbe perfino alzarsi e dire che il gol più bello di Pelé non sia mai esistito.

Ho avuto due mogli e nessun altro amore al di fuori del Fluminense, anche se il Santos dopo Pelé ho finito per allenarlo, portandolo pure alla vittoria in un campionato paulista. Allo stadio Laranjeiras, all'ingresso centrale, c'è un mio busto. E la scritta: A Castilho, il santo del Flu. Ho sempre sorriso, ho sorriso a tutti, anche quando i colori confusi nella mia testa sono diventati buio totale, senza che nessuno si accorgesse del mio dolore. Come il giorno in cui dissi al dottor Barreto che potevano togliermi un dito, non il posto da titolare.

Carlos José Castilho si è tolto la vita il 2 febbraio 1987 gettandosi dalla finestra dell'appartamento di Viola, la sua prima moglie.

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