Ho sempre fatto il tifo per il Ferencvaros. Anche da bambino. Prima ancora di sapere che fosse la squadra della destra nazionalista. Il mio sogno era diventare grande perché potessi giocarci anch'io. In porta, si capisce. Facevo le telecronache finte e l'urlo dello stadio. Numero uno Gyula Grosics. Eeeeeeh. Così cominciai, sognando quella maglia nera. Ho giocato per il Dorogi Bányász. Ho giocato per il Mateosz Budapest. Ho giocato per il Teherfuvar. E a 24 anni, quando già mi avevano soprannominato Pantera Nera, perché tutto di nero vestivo dalla testa ai piedi, mi dissero che ero pronto. Pronto per una squadra vera. Una grande squadra. Io pensai che fosse giunta l'ora, invece mi dissero che la mia grande squadra era il Kispest. L'esercito gli stava cambiando nome. Stava diventando l'Honved. La squadra del ministero della difesa. Lì giocava Puskas. Lì giocava Kocsis. Lì giocava Czibor. Lì giocavano tutti i migliori calciatori dell'Ungheria, lì il governo aveva stabilito che dovessi andare anch'io.
Crescemmo insieme, insieme giocavamo pure in nazionale. Nacque la grande Ungheria. Pensate a 4 anni di fila senza perdere mai. Pensate a 33 partite internazionali consecutive senza sconfitte, io paravo e uscivo coi piedi fuori area. Era il mio stile. La pantera nera. Siamo andati a Wembley contro i maestri inglesi, 1953, loro ci segnarono tre gol, noi gliene facemmo sei. Rimasero sotto shock. La partita del secolo, i tabloid scrissero così. Ancora se la ricordano. Me la ricordo anch'io. A nove minuti dalla fine mi crebbe una palla in gola, spuntò all'improvviso, io la sentii gonfiarsi e mangiarmi il fiato. Si piantò al centro del petto, alla bocca dello stomaco, spingeva contro il mediastino, stavo per impazzire. Chiesi all'arbitro di uscire dal campo, volevo solo tornarmene al più presto in panchina. Era un attacco di panico. Uguale a quelli che di tanto in tanto mi prendevano in allenamento, quando ero convinto che una grave malattia stesse aggredendo il mio cervello: per questo portavo un berretto rosso, mi faceva bene, ne ero certo, ne ero certissimo.
Certissimi della nostra forza arrivammo ai mondiali del '54 in Svizzera. La storia la conoscete tutti. Ne facemmo 9 alla Corea, 8 alla Germania, 4 al Brasile, altri 4 all'Uruguay campione in semifinale e in finale ritrovammno la Germania, che avevamo massacrato 14 giorni prima. Qualche sciocchezza la faccio io, qualche problema ce l'ha Puskas con la sua caviglia, fatto sta che dal 2-0 per noi nei primi 8 minuti, si passa al 3-2 finale per loro. Ci annullano un gol e non ci danno un rigore. Germania campione del mondo. Finita così. Il miracolo di Berna. Noi restiamo la grande Ungheria che non ha vinto niente. Qualche settimana dopo, veniamo a sapere che tutti i tedeschi erano stati colpiti da un morbo di tipo itterico. Dovettero lasciare il calcio per un po'. Chissà che cosa avevano preso pur di batterci.
A Budapest la gente quel giorno era in strada per festeggiare, l'attesa si trasformò in protesta. La folla cominciò a prendersela con il governo. Il Partito reagì malissimo. Le nostre vacanze furono cancellate, ci riportarono in Ungheria senza che neppure potessimo vedere per un attimo le nostre famiglie. Per giorni ci trattennero dentro un edificio, dicevano che ci stavano tutelando, in realtà ci avevano arrestato. L'accusa per me fu di condotta incompatibile con la legge e la morale. Io dico che se non avessimo perso la finale mondiale, non ci sarebbe stata la Rivoluzione d'Ungheria. Senza il '54, non ci sarebbe stato il '56.
Ero all'estero con il Kipest, o l'Honved, o come diavolo si chiamava, quando arrivò la notizia che l'Armata Rossa era entrata a Budapest. Gli inglesi del Wolverhampton ci avevano invitato per un'amichevole, 3-2 per loro, la partita era stata così bella che aveva preso corpo l'idea di giocarne più spesso. Nacque la Coppa dei Campioni. Noi dell'Honved eravamo qualificati all'edizione del '56/57. Andammo a Bilbao al primo turno e perdemmo 3-2. Il 20 dicembre li aspettavamo da noi per il ritorno. Ma da noi, a Budapest, ormai c'erano i carrarmati dei sovietici. Si decise di giocare in campo neutro. A Bruxelles. Lo stadio era l'Heysel. Io mi feci male quasi subito, all'epoca le sostituzioni non esistevano. Restammo in 10, in porta andò Czibor. Finì 3-3. Ma la vera partita la giocammo fuori. Molti dei ragazzi della squadra riuscirono a farsi raggiungere in Belgio dai familiari. Rifiutammo di tornare. Noi, la squadra dell'esercito. Béla Guttmann, il nostro allenatore, organizzò una specie di tour fra Portogallo, Italia, Spagna. Il Messico ci offrì asilo politico e un posto nel loro campionato. Ma noi sapevamo di non poter girare il mondo in eterno. Il Brasile ci invitò per delle partite contro Flamengo e Botafogo, nel frattempo il mondo del calcio aveva stabilito che l'Honved ufficialmente non esisteva più. Eravamo una squadra illegale. Quando tornammo in Europa, Czibor Kocsis e Puskas si fermarono fra Barcellona e Madrid. All'estero non mi voleva nessuno. Io, Bozsik, Budai e Lorant scegliemmo di tornare a giocare in Ungheria. Fui accusato di tradimento. Ma ero Grocsis. Il portiere della grande Ungheria. Mi rilasciarono e mi portarono a casa. Tredici mesi di mezzo esilio, poi la nazionale mi richiamò e giocai pure i mondiali del '58 e del '62. Fu l'Honved a non volermi più. Ho chiuso giocando con il Tatabanya.
Quando ho smesso, spuntarono giornalisti e scrittori a dire che avevo raccontato un mucchio di balle. Ma io davvero venivo da una famiglia povera, si viveva in due camere e cucina, mio padre faceva il fabbro, voleva che mi facessi prete. Sul partito comunista si sapeva come la pensavo, sono sicuro che mi abbiano fatto sorvegliare a lungo. Dopo il Mondiale, ogni settimana passava una macchina nera sotto casa mia, mi prelevavano e mi portavano sempre nello stesso stanzone per rispondere alle stesse domande. Ami l'Ungheria? Sei un traditore? Casa mia divenne l'arsenale dei ribelli nel '56, ero felice di dare il mio piccolo contributo anti-comunista. Ed ero felice di aver rifiutato l'onorificenza massima della città di Budapest, dissi che non volevo far parte di un elenco in cui ci fosse anche il nome di Stalin. Era noto che nel '44 da diciottenne ero stato in Levente, una organizzazione paramilitare di destra e che ero sparito a lungo dopo un missione in occidente. I miei mi avevano creduto morto. Qualcuno più tardi scoprì che invece ero stato volontario nella venticinquesima divisione SS Hunyadi Páncélgránátos Hadosztály. In accordo con il trattato di Parigi, ogni volontario di questa divisione SS era considerato un criminale di guerra. Il ministero dell'Interno sapeva tutto già dagli anni Ottanta, i la pratica con i documenti d'archivio era arrivata in mano a János Kádár. Gyula Grosics, il grande Gyula Grosic, aveva nascosto il suo passato.
Un giorno vennero a bussare alla mia porta chiedendomi di tornare. Era passato tanto tempo. Magyarország aveva lasciato il patto di Varsavia, era entrata nell'Unione europea ed era diventata repubblica parlamentare. Io sostenevo Fidesz, partito conservatore e cristiano. Mi facevo vedere ai congressi, al leader Viktor Orbán piaceva che ci fosse la mia faccia alle sue spalle. Era il 2008 quando una squadra mi chiese di tornare a giocare un'amichevole contro gli inglesi dello Sheffield. Avevo 82 anni, la squadra era il Ferencvaros. Una partita simbolica. Volevano darmi la gioia di stare in porta almeno un giorno con la loro maglia. Quella che sognavo da bambino. Dissì di sì. E' stato il giorno più bello della mia vita. Sono entrato in campo, io la pantera nera, coi pantaloni lunghi, e sono andato in porta. La mia porta. Ci sono rimasto per quaranta secondi appena. Il tempo di dire, be' in fondo ce l'ho fatta, alla fine ne è valsa la pena, ho salutato tutti e sono uscito per sempre con i piedi fuori area.
Gyula Grosics è morto il 13 giugno del 2014
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