venerdì 7 febbraio 2014

Trautmann, il prigioniero adottato dagli inglesi


Quando gliene parlai occhi negli occhi, Sepp Herberger fu subito drastico. Mi disse che in nazionale non poteva chiamarmi, non c’era posto per me, anche se ero uno dei migliori portieri di tutta Europa. Se avessi giocato nel campionato tedesco, ecco, forse una soluzione si sarebbe potuta trovare, o neppure, chi lo sa, lui all’inizio disse così. Forse era una scusa. Sepp non trovava opportuno che il numero uno della Germania fossi io, dopo tutto quello che era successo. Di certo non potevo immaginare che un anno più tardi la Germania sarebbe diventata campione del mondo e che io, Bert Trautmann, avrei saputo la notizia soltanto dalla radio.


Al posto che consideravo mio era stato scelto Toni Turek, un ragazzo di Duisburg che giocava per il Fortuna Düsseldorf. In finale fece scoppiare un gran casino per una fantastica parata compiuta sull’ungherese Hidegkuti, uno che aveva inventato il ruolo del centravanti arretrato. Dopo la parata, il commentatore Hans Zimmermann disse Toni du bist ein Fußballgott, sei un dio del calcio. La Chiesa protestò, Zimmermann dovette scusarsi. Ci fossi stato io, non sarebbe mai successo. Di me non l’avrebbe detto. A nessuno, neppure ad Hans, sarebbe passato per la testa di paragonarmi a Dio. Di certo non nel 1954, nove anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Quando erano stati firmati gli accordi di pace, mi ero rifiutato di tornare nella mia Germania, gli inglesi mi avevano offerto di essere rimpatriato. A me prigioniero di guerra, a me nazista.

Sono nato nel peggiore degli anni possibili per la Germania. Il 1923. Io ero del 22 ottobre, diciassette giorni dopo Hitler tentò il colpo di stato. Il Putsch di Monaco. Due anni ancora e sarebbe arrivato il Mein Kampf. Ne avevo dieci quando lui prese il potere, ero arruolabile per la Gioventù hitleriana, un bambino su tre ne faceva parte, per me che amavo lo sport non c’era niente di strano. Entrai. Ricordo lunghissime partite di Völkerball, una specie di palla avvelenata. Venimmo scelti in sei, a Brema, per andare a lavorare la terra un anno in Slesia. Era un premio per i più sani, i più belli, i più forti. Dei piccoli ariani perfetti. Era la nostra iniziazione, e funzionò. Quando Hitler invase la Polonia, ne fui felice. Quasi arrivai alle mani con mio padre, contrario, disperato, consapevole che quell’atto ci avrebbe condotto alla catastrofe. L’anno dopo partii, ne avevo diciassette, e andai al fronte. Volevo fare il pilota, mi scelsero come radiotelegrafista.

Ne avrei di storie da raccontare. Come quando mi offrii di partecipare all’invasione dell’Urss ma danneggiai una delle macchine destinate a portarci a Kiev: mi spedirono davanti alla corte marziale e mi diedero nove mesi di prigione. Oppure quando mi persi in un bosco di notte a Dnipropetrovsk e vidi le SS massacrare i civili in un villaggio. Mi mandarono a combattere in Bielorussia, sono rimasto in prima linea anche quando avevo una pallottola in una gamba. Sono fuggito alla prigionia dei sovietici, ho combattuto contro gli americani vicino Parigi e contro gli inglesi nella battaglia di Arnhem. A Kleve rimasi tre giorni sotto le macerie dei bombardamenti, alla fine mi catturarono gli inglesi e mi trasferirono al campo di Ashton-in-Makerfield, guidavo i camion e mi innamorai del calcio. La domenica mattina c’era l’abitudine di giocare all'interno del campo, noi prigionieri di guerra, una partita contro dei calciatori locali. Ero il mediano della squadra. Un giorno mi faccio male e non mi reggo in piedi, l’arbitro mi consiglia di uscire, a me pare una vergogna. Non esco. Lui insiste. Non esco. Lui me lo impone. Non esco. Allora al nostro portiere, Gunther Luhr, viene un’idea. Grida: "Ehi Bernd falla finita, gioca qui, al posto mio, ci vado io a centrocampo". Sono andato tra i pali e non ne sono uscito più.

Ero considerato un imperterrito sostenitore del regime, anche se in realtà dopo la missione in Ucraina la mia passione si era molto affievolita. Il via libera per il rimpatrio arrivò tardi, eravamo già nel ’48, ma io scelsi di non tornare. Non mi andava di vedere la mia Germania fiaccata, mortificata dalla guerra e dai trattati di pace, non mi andava di rientrare a casa da sconfitto. E poi in Inghilterra c’era Marion, e Marion aveva nel pancione il mio bambino. Fu quello il momento in cui Bernhard divenne Bert, nel ’49, quando firmai il contratto con il Manchester City. Scesero in piazza in venticinquemila per protestare, il mio nome veniva legato dai tifosi più ai milioni di ebrei uccisi che alle parate del campionato precedente giocato con il St. Helens Town. In trasferta mi urlavano schifoso nazista. Durò un anno, questo clima. Un campionato solo e mi avevano accettato. Per il mio coraggio in campo e per la mia generosità. Eppure Sepp disse quello che disse, che gli dispiaceva, per la nazionale non si poteva fare nulla. Non poteva dare la maglia numero uno per i Mondiali del ’54 a Trautmann, il bambino della gioventù hitleriana, già la Germania era rimasta fuori quattro anni prima. Il Manchester City fu la sua ottima scusa, il Manchester City è stato la mia salvezza. Ho combattuto l'Inghilterra in guerra, ma l'Inghilterra mi ha perdonato, mi ha permesso di guardarmi allo specchio ogni mattina.

Sono sempre stato forte d’animo, e questo per me alla fine è valso più di un titolo di campione del mondo. Lo sono stato quando nella finale di Coppa d’Inghilterra del ’56, contro il Birmingham, Peter Murphy mi colpì alla nuca e mi lasciò a terra svenuto. Ho ripreso a giocare, vincemmo, gli ultimi minuti non li ricordo, come se non li avessi mai vissuti. Scoprii qualche giorno più tardi che avevo una lesione al collo. Un mese dopo, una macchina uccise mio figlio John di sei anni mentre attraversava la strada per andare a comprare le caramelle. Sono stato forte quando è finito il mio matrimonio con Marion e ancora di più quando la notte di Natale del ’71 la mia seconda moglie Margaret pensò di essere divertente sollevando il calice nell’aria e brindando verso di me al grido di Heil Hitler. Non doveva, non lo meritavo. Ci siamo lasciati e sono tornato dalla mia Marion. Anche in Germania alla fine sono tornato. Prima da allenatore del Preussen Münster, poi con un incarico della federcalcio: far sviluppare il calcio nei Paesi asiatici e africani. Così nel ’72 ho portato la Birmania alla fase finale delle Olimpiadi. Perdemmo due partite su tre, ma vincemmo il premio Fair Play. Ai Giochi di Monaco di Baviera. Germania, comunque Heimat.

Bernhard Trautmann è morto in Spagna nell’estate del 2013

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