L’unica cosa che non mi piace del romanzo d’esordio di Angelo Carotenuto è il titolo Dove le strade non hanno nome. Lo so che ha una sua ragione, anzi: più d’una. Però non mi piace. Non tanto perché è uguale al titolo di un romanzo per “giovani adulti” di Randa Abdel-Fattah pubblicato appena un anno fa da Mondadori. Quanto perché mi pare velare dietro una promessa di malinconico squallore la strepitosa vitalità della scrittura dell’autore e la funambolica struttura con cui ha costruito un libro che, a mio modesto avviso, è tra i più interessanti dell’anno.
Il romanzo è ambientato a Napoli, nella settimana che va dal 9 al 3 luglio 1993: avete letto bene, dal 9 al 3. Perché Carotenuto racconta così, “à rebours”, e non per capriccio, ma perché in questo modo può risalire meglio alle radici delle sue storie. Quella settimana si conclude (dunque si apre) col concerto degli U2 al San Paolo, ed ecco il titolo, traduzione di quello della canzone di Bono “Where the Streets Have No Name”. E l’estate del 1993 non è una data scelta a caso: coincide con tangentopoli e con uno dei punti più bassi toccati da Napoli nella sua traiettoria storica, però proprio alla vigilia di un imprevedibile “rinascimento”. Detto che il romanzo si apre sulle nozze della figlia del chiacchierato Guglielmo Orlandini - un onorevole che non è onorevole e se è per questo nemmeno assessore, e che comunque tutti chiamano onorevole e assessore e magari pure senatore - e sulla morte, per suicidio, di questi, che era un uomo che, come leggeremo, “più di ogni altra cosa al mondo, aveva paura del silenzio a letto in uno spazio aperto dietro una porta chiusa, dopo un comizio vuoto in cui aveva perso il filo del discorso”.
Capirete, dopo questa citazione, come io non voglia nemmeno provare a riassumere la trama del libro. Sarebbe impresa di una certa complessità e sottrarrebbe troppo spazio alla necessità di dire intanto che c’è una folta galleria di personaggi molto ben rilevati, dal quattordicenne Carmelino che sa tutto di tutti i vulcani del mondo, al dimenticato portiere Sonny Zurzolo che per tutti resta quello che aveva parato un rigore a Pelé quando la perla nera giocava in America coi Cosmos, benché non l’avesse parato, al seducente camorrista filosofo Gerri Ghibli, a promettenti bambini delle elementari capaci di abbassarsi i pantaloni davanti alla maestra, di dire al preside “Ti aspetto fuori” e di fargli lo sgambetto quando quello è andato fuori. E poi c’è Napoli, il centro e la periferia, o magari l’asse mediano, dove i pochi cartelli d’alluminio non ancora rubati “provvedono a mandarti da tutta un’altra parte”.
La politica, il crimine organizzato, il degrado, la zona grigia delle connivenze: tutto il male di Napoli in questo libro c'è. Ma c'è anche, lo dicevo all'inizio, una grande scrittura, una voce molto originale sempre incline alla divagazione che si compiace di gigionesche cialtronaggini - "modestamente, ogni tanto io mi atteggio" - e si perde e si esalta nell'utilizzo di lessici ultraspecialistici, e conosce momenti di stalunata felicità quando per l'appunto svaria e divaga e nota, per esempio, come i portieri di calcio di un tempo fossero accomunati dalla circostanza di portare nomi molto rari, da Astutillo Malgioglio a Idilio Cei.
E poi, certo: il romanzo ha anche un'anima tragica, e pagine che la rappresentano come fasci di una luce livida squarciare il suo tessuto grottesco. E ne ha una "politica" che oggi (vent'anni dopo) potrebbe risultare la più potente.
Francesco Durante, Corriere del Mezzogiorno
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