Quando dopo due mondiali vinti, il Brasile rientrò dall'Inghilterra con un'eliminazione al primo turno, tutti dissero che serviva un nuovo portiere, più giovane, più grosso. Ero io. Émerson Leão. Il Leone. Aspettavo il Messico nel '70 per diventare campione del mondo a ventuno anni. L'ultimo Mondiale di Pelé, sapevo che avrebbe voluto lasciare con un'altra impresa. Io sarei stato il portiere titolare, così garantiva il ct Joao Saldanha. Quando cominciarono le eliminatorie, in conferenza stampa fece i nomi degli 11 uomini che considerava titolari per il biennio. Aveva un'ambizione enorme: far giocare il Brasile con cinque numeri 10. Davvero.
Prese i cinque migliori numeri 10 del Paese e li mise insieme: Pelé, Gérson , Tostão , Jairzinho e Dirceu Lopes. Li chiamava: i miei leoni. E poi io, Leão, per davvero.
Un uomo incredibile, quel Saldanha. Era stato il leader politico del movimento studentesco a Rio de Janeiro negli anni '30 e aveva fatto il contrabbando di armi al confine con il Paraguay. Poi si era messo a lavorare per le radio e le tv, si era messo a scrivere, firmò dei reportage bellissimi dallo sbarco in Normandia e dalla marcia di Mao. Un comunista vero, se ce n'era uno. Quello diventò un problema. La giunta militare fascista voleva imporgli dei giocatori, lui rispose che quando il presidente aveva scelto i ministri nessuno dei generali era andato a chiedergli un consiglio. Si mise contro e gliela fecero pagare. Quando si fece venire dei dubbi su Pelé, sostenendo che la sua vista stesse calando, Havelange gli tolse l'incarico. Chiamarono allora Mário Zagallo, che nel '58 e nel '62 era stato in squadra. Fine dei sogni. Dei sogni miei, dico. La prima cosa che Zagallo fece, fu rimettere in porta Felix, che aveva 33 anni e che era il suo burattino. Ne combinò di guai, in Messico. Contro la Romania, il Perù, l'Uruguay. Persino in finale contro l'Italia. Ma niente, il posto era suo. Io rimasi solo a guardare.
Sono stato il portiere titolare del Brasile in due Mondiali deludenti, quello del '74 e quello del '78. A 37 anni mi richiamarono fra i convocati come terzo per quelli del 1986, ancora, tornavo in Messico. Se a Tele Santana l'idea fosse venuta anche nel 1982, in Spagna avrei tolto il posto a Valdir Peres, e Paolo Rossi non ci avrebbe buttato fuori con i suoi tre gol. Ero il più bravo di tutti a gestire la pressione dei giornali. Me ne fregavo. Mi fa rabbia vedere il calcio in mano ai tecnocrati, quelli che ne fanno una questione di commercio e marketing. Gente che lavora davanti a un computer e non ha mai sentito l'odore del campo. Quando ho cominciato, non esistevano gli allenamenti specifici. Non per questo eravamo meno bravi. Di noi portieri brasiliani amavano raccontare che fossimo scarsi in presa alta perché non abituati ai cross, le nostre ali in campionato puntavano sempre la porta. Sciocchezze. Quando arrivammo in Germania, ai Mondiali del '74, vennero a proporci l'acquisto di un documentario sui portieri europei, sulle loro tecniche di allenamento e il loro lavoro. La federazione lo comprò pensando che potesse tornarci utile, una sera dopo cena ci riunimmo per vederlo. Bene. Il settanta per cento del materiale realizzato era su di me, lo avevano girato durante un'amichevole con la Germania. Incredibile: e poi io non sapevo uscire sui cross.
Ero di ghiaccio, impassibile a tutto questo. Me ne fregavo, l'ho detto. Me ne fregai anche del dottor Socrates e della sua democrazia corinthiana. Sono finito lì nel 1983, avevo lasciato il Gremio perché cercavano un portiere di prima fascia per rivincere il campionato. Ero famoso. Avevo il mio nome stampato sul petto della maglia, facevo pubblicità a una marca di abbigliamento intimo. Ma quando arrivai al Corinthians, quella che loro chiamavano democrazia, a me parve anarchia. Io mi allenavo e andavo a casa. Intorno a me c'era gente che beveva, che faceva tardi la notte. Dov'era la democrazia in tutto questo? E io non ne volevo sapere di politica. Mi era bastato Saldanha, se devo dirla tutta. C'erano compagni di squadra che bevevano nella stanza dell'allenatore, altri si addormentavano al campo per aver fatto tardi la sera prima, una volta ne ho visto uno allenarsi ubriaco. Avevamo un treno da prendere alle otto del mattino e misero ai voti di spostare la partenza, perché c'era da andare a ballare la sera prima. Era questa la democrazia? Allora io non votavo, votate voi, mi astengo. Dicevano che non volessi accettare che il mio voto, il voto di Émerson Leão, valesse quanto quello dei magazzinieri. In realtà non mi piaceva l'andazzo. Potevo essere felice con Socrates e con gli altri anche solo giocando e allenandomi, senza bere, senza andare alle feste e tutto il resto, senza parlare di politica: solo in campo, a modo mio. Sono rimasto un anno, è stato un anno felice, ma poi basta. Li ho salutati e sono andato via.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Émerson Leão sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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