domenica 11 maggio 2014

Olivares e la partita in 11 contro nessuno

juanitoScoprimmo che ci fischiavano. Arrivammo in Germania e ce l'avevano con noi. Eravamo la squadra di Pinochet, ci eravamo qualificati grazie alla rinuncia dell'Urss, ma soprattutto con una partita diventata barzelletta. In Cile le cose andarono così. Il Palazzo della Moneda era caduto da due mesi. Settembre '73. "Ho fiducia nel Cile e nel suo destino", aveva detto Allende alla radio, poco prima di morire durante il golpe di Pinochet. Ci stavamo infilando nel buio. Chi si opponeva finiva allo stadio, il nostro, l'Estadio Nacional, a Santiago. Non c'era più posto per i gol, lo avevano trasformato in un gigantesco campo di concentramento per chi aveva idee diverse da quelle del generale.


Gli spogliatoi diventarono camere di tortura e di fucilazione. Ma proprio all'Estadio, due mesi dopo, avremmo dovuto giocare la partita decisiva per andare ai Mondiali.

chile-urss  Una formula stramba, quell'anno: obbligava la vincitrice del nono girone europeo a sfidare chi nel Sudamerica fosse arrivato primo tra noi e il Perù. Ci toccava l'Urss, allora. Andammo a Mosca per la partita d'andata che erano passati solo quindici giorni dal golpe di Pinochet. Ci guardavano storto, ce ne accorgiamo, il calcio non poteva essere il solo motivo. Già in aeroporto ci fecero un mucchio di problemi, Caszely aveva i baffi sulla foto del passaporto e nel frattempo li aveva tagliati: non volevano farlo entrare. Si perse un po' di tempo ma alla fine risolvemmo. E una volta in albergo scoprimmo che il cibo era orrendo, le bistecche minuscole. Pensiamo alla partita, ci dicemmo, siamo qui per questo: in nazionale di politica non si parlava mai. Ed era un errore, lo so che era un errore.

Arquero  In campo facemmo un catenaccio memorabile: Quintana e Figueroa davanti a me, Juan Olivares, non lasciavano passare niente. Non arrivammo mai dentro la mezza luna della loro area di rigore. La più grande partita difensiva nella storia del calcio cileno. Finì 0-0, eravamo a metà del cammino.   Il 21 novembre la partita di ritorno. Ma da Mosca i comunisti fecero sapere che non avevano nessuna intenzione di presentarsi. Non nella Santiago di Pinochet, non all'Estadio Nacional. Breznev chiese alla Fifa che si giocasse in campo neutro. A quel punto partirono le trattative, fatto sta che la giunta militare cilena si affrettò a portare i prigionieri politici via dagli spalti e a ripulire lo stadio. Ma il sangue non si smacchia così in fretta, il sangue degli innocenti non lo cancelli mai fino in fondo. Quando gli ispettori arrivarono per le loro verifiche, diedero l'agibilità: alla Fifa bastava quel che il Cile aveva fatto. All'Urss no. Stanley Rous, il capo del calcio mondiale, decise però che da Santiago la partita non si sarebbe spostata. Il mondo è pieno di dittatori, ai dittatori il calcio non glielo toglie nessuno. Non lo tolsero neppure a Pinochet. I sovietici non cambiarono idea, si impuntarono, replicarono che allora in Cile non sarebbero venuti. Se non vi presentate, fece la Fifa, perderete 2-0 a tavolino: e ai Mondiali ci va il Cile.

tabellone    Il 21 novembre, all'Estadio Nacional, la Fifa aveva comunque mandato un arbitro austriaco, sebbene fosse chiaro ormai da giorni che l'Urss non si sarebbe presentata. Noi allo stadio andammo. Non solo noi. I militari avevano fatto arrivare comunque 20mila persone, i brasiliani del Santos erano stati ingaggiati per un'amichevole. Ma prima ancora dell'amichevole, giocammo un minuto da soli. Contro degli avversari fantasma. Noi undici contro l'Urss che non c'era. Salutammo il pubblico e l'arbitro fischiò il calcio d'inizio, ancora oggi non capisco come sia stato possibile. Ci furono nove passaggi in avanti. Quando il pallone arrivò tra i piedi di Carlos Caszely, centravanti e idolo del Colo-Colo, pensammo che l'avrebbe fatto, pensammo che avrebbe buttato il pallone in fallo laterale come segno di protesta verso quella messinscena del regime. Ma Caszely all'ultimo momento non se la sentì, neppure calciò nella porta vuota, appoggiò la palla a Valdés, era lui il capitano: che lo segnasse lui il gol più assurdo del mondo.

 

Francisco Valdés. Era figlio di operai, militanti di sinistra. A casa avevano pianto l'undici settembre, l'ultimo giorno di Allende. Quando rientrammo negli spogliatoi, dopo il gol ai fantasmi dell'Urss, Valdés corse in bagno a vomitare. Caszely lo abbracciò e gli chiese scusa, gli disse che avrebbe dovuto metterla fuori lui, lui che si è sempre rifiutato di stringere la mano a Pinochet. Una squadra di vigliacchi, questo ci sentimmo. Qualcuno di noi chiese al ct di essere esentato almeno dall'amichevole con il Santos, ma ormai era tardi per il resto. Eravamo la squadra di Pinochet, ai Mondiali in Germania ce lo avrebbero ricordato in ogni istante.

Carlos Caszely
Carlos Caszely
 Ma le verità hanno sempre una faccia nascosta. Prendiamo Valdés, per esempio. Sta così male che anni dopo prende la penna e scrive una lettera immaginaria a Pablo Neruda, il poeta dell'amore e dell'impegno, tifoso del Colo-Colo. Gli spiega di non aver avuto la forza di dire no, che si sente il mondo crollare addosso, "sono schiacciato da una responsabilità che non avrei voluto sopportare, ero stato scelto per un gioco più grande di me". Anche Caszely è sconvolto. In Germania si fa buttare fuori contro la Germania dando la caccia a Berti Vogts. La sua espulsione ci condiziona il cammino, usciamo subito dai Mondiali, la giunta di Pinochet ordina che Caszely non metta più la maglia del Cile. In realtà lo richiameranno per la Coppa America del '79 e per i Mondiali del 1982. Contro l'Austria, in Spagna, Caszely sbaglia un rigore e i giornali scrivono che l'ha fatto apposta, lui, il socialista. Quando tre anni dopo lascia il calcio, la sua partita d'addio si trasforma nella più grossa manifestazione d'opposizione a Pinochet. Nell'anno del referendum per un nuovo mandato presidenziale, Caszely va in tv e mette la sua faccia contro il dittatore: racconta di sua madre, sequestrata e violentata dagli uomini del regime. Pinochet viene battuto alle urne. Ecco, quel giorno, finalmente, il Cile ha buttato il pallone fuori.

(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Juan Olivares sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)

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