venerdì 30 maggio 2014

I calzettoni bianchi di Arconada

arconadaLeader è una parola che si usa troppo spesso, dentro un campo di calcio e fuori. Con i leader si esagera. State sempre a cercarne uno, ma i leader sono un problema, i leader sono un pericolo. Esistono le squadre, questo è il calcio. In campo esistono undici personalità, undici esperienze differenti. Non si dovrebbe mai dipendere da un uomo solo, perché quando i leader sbagliano, o quando vengono a mancare, mandano la squadra giù per un precipizio. Non provate a leggere dentro queste mie parole un messaggio politico. Io di politica parlo solo con i miei amici più stretti. Di due cose non parlo: di politica e religione. Tutto quello che di me trovate in giro su questi due argomenti, bene, sono scemenze. Il divorzio, la pillola, eccetera. Tutti chiedevano un mio parere, quando ero Luis Arconada, il numero uno della nazionale di Spagna al Mundial '82, organizzato in casa nostra. Ma ero solo un portiere di calcio, non un personaggio della scena pubblica.


Avevo una vita privata e pensieri privati, volevo tenerli per me. La folla invece chiede di aprirti in due, di sventrarti, guardarti dentro, vuole sapere cosa pensi. A una folla non basta ammirarti, una folla deve ingoiarti. Mi avrebbero sbranato per i miei errori. Per questo dico che nel calcio esiste la fama, esiste la popolarità, ma non esiste la leggenda. Sì, leggenda ti chiamano, ma quando sbagli un pallone se ne dimenticano. Uscimmo dal nostro Mundial e si parlava solo di me. Dei miei 300 milioni l'anno di guadagno per contratti pubblicitari. Del fatto che avessi voluto mettere una maglia mia, personale, diversa da quella ufficiale della nazionale. Del fatto che avessi i calzettoni bianchi e non del colore della bandiera spagnola: sembrò un affronto, il problema era diventato quello. Si parlava solo di Arconada, il basco, il ribelle, uscimmo prima delle semifinali e sembrava fosse colpa mia. Ma quando riguardo i cinque gol subiti in quel torneo, mi dico che non mi sento responsabile per niente, neppure della sconfitta contro la Germania.


La stessa cosa si ripeté due anni dopo. Nella finale degli Europei contro la Francia. Quel Platini.



Il portiere dipende da se stesso, nessuno può aiutarti quando arriva il tuo momento. E' un mestiere ingrato. Ma non c'è niente di più crudele che guadagnarsi i soldi facendo il pugile. Non so se è peggio guadagnarsi da vivere dando pugni oppure prendendone.  Avete mai guardato un calcio di rigore con gli occhi di un portiere? Dentro lo sguardo non ci sono mai soltanto undici metri. Lo sguardo si perde, va oltre la distanza, si spinge dietro il dischetto, dietro la linea della palla, dietro le spalle dell'avversario che sta partendo per calciare. Lo sguardo di un portiere arriva fuori area, dove i tuoi compagni ti stanno chiedendo un aiuto, chiedono che tu faccia qualcosa per loro, per tutti, per la gente che guarda, per il popolo che non è dentro lo stadio, magari è a casa e ascolta la radio. E quando davanti agli occhi di un portiere si fa strada una scena come questa, la paura dovrebbe sparire perché si scopre di non essere più da solo. Invece la paura aumenta: non sei più uno, sei le mani di tutti. Hai tre scelte su un calcio di rigore: sinistra, destra, fermo. Se resti fermo, la gente dice: almeno buttati. Se ti butti da una parte, ti dicono: era meglio dall'altra. L'unica soluzione è lo studio. Sapere dove gli avversari possono calciare. Avevo un quaderno, prendevo appunti. Chi studia, ha un'occasione in più. La mia era una famiglia agiata, i miei hanno potuto mandarmi all'Università, scienze imprenditoriali, ho sempre cercato spunti nuovi, non ho mai rinunciato alla mia curiosità. Leggevo quattro quotidiani al giorno già quando ero un calciatore: El Diario Vasco, Egin, Marca e El País. A noi baschi si chiede sempre qualcosa in più. Soprattutto se giochiamo in porta. Penso a Iribar e a Urriticoechea, dopo sono venuto io, dopo di me Zubizarreta. E' la geografia del paese che ci spedisce fra i pali. Il merito è delle spiagge fredde su cui è meraviglioso giocare, a Gipuzkoa è una tradizione. Quando c'è la bassa marea, i bambini montano le porte, si può giocare scalzi ma pure con le scarpe. Il merito è  degli sport contadini: tagliare tronchi, sollevare pietre, tagliare l' erba con la falce. Un portiere basco non se ne sta soltanto a deviare dei tiri, ma prende di petto anche la vita. Se ne sta a difendere la porta della Spagna anche se il pubblico ti grida che sei un assassino. Sorridere, sorridere sempre, ma con precauzione. La saggezza comincia sempre dalla paura, dice il nostro Miguel de Unamuno. Io non so cosa prova un catalano nel sentirsi un catalano, né posso immaginare cosa provi un gallego. Ma sono basco e so cosa vuol dire.

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