Parole che oggi fanno di lui l'esatta incarnazione del perfetto uomo Atletico, e non solo perché aveva la maglia bianca e rossa nell'anno dell'ultimo campionato vinto, 1996. L'altra Madrid ha riscoperto con lui il coraggio di pensare in grande, di illudersi, di sentirsi in grado di vincere tutto, persino di demolire la sua mitografia, costruita sull'idea di un club magnifico e perdente. Simeone è tornato per ribaltare un mondo.
È l'icona della ribellione del fútbol popolare, il volto di una controcultura sfacciata che si oppone ai Galacticos del Real e al narcisismo appannato del Barça. (...) Il seme del nuovo Atletico è questa paura qui. In Calle Fuencarral, ordinatissima isola pedonale nel centro di Madrid, prese casa l'Atletico nei suoi primi giorni di vita. Tra un negozio di caramelle e uno di abbigliamento femminile, al civico 27 oggi c'è una piccola pensione. "Ma io sono tifoso solo del mio portafogli", spoetizza tutto Antonio, il titolare. Essere colchoneros significa darsi un abito moderno senza aver smesso di sentirsi eredi di una storia umile, eredi di quelle maglie così uguali ai teli che a inizio Novecento ricoprivano i materassi. Le gru sbucano improvvise ai lati della strada che collega l'aeroporto alla città, La Peineta, qui stanno tirando su il nuovo stadio, sarà pronto fra due anni, settantamila posti, accordo con il Comune e 200 milioni di investimenti. Un quartiere giovane, l'area del progetto olimpico, nuovi insediamenti, un'opera che sarà la base dell'autofinanziamento necessario per restare grandi. Il resto sarà lavoro per Simeone, corteggiato dalla Premier, ma profondamente legato a questa maniera di vivere il calcio. "Sapevo che prima o poi sarei tornato per fare quello che stiamo facendo". Un calcio duro per mentalità, ma pieno di ottimi piedi. Più su dell'Atletico, nella scala di Simeone, c'è solo la nazionale argentina. Lui che si sente più Bilardo che Menotti, più concretezza che filosofia. "Vivere la vita con più intensità, questo significa essere dell'Atletico", spiega Miguel García Vizcaíno, l'uomo che ha inventato l'immagine del club, il responsabile delle campagne pubblicitarie degli ultimi anni, una più bella dell'altra. "Siamo tutti tifosi, alcuni lavorano gratis", dice nell'elegante palazzo in Gran Via dove ha sede l'agenzia Señora Rushmore. Il primo spot è quello che ha dato la traccia ai successivi. Un papà in auto, fermo al semaforo, si sente chiedere da suo figlio: "Perché siamo dell'Atletico?". Risposta in sovrimpressione: non è facile da spiegare, ma è qualcosa di molto, molto
grande.
Miguel racconta che fu sua figlia Ana a fare davvero quella domanda. "Erano anni bui, per la seconda stagione di fila giocavamo in serie B. Una catastrofe. Per un bimbo di sette anni era complicato andare a scuola e sopportare i madridisti. Un colchonero è un lottatore. Sa che le cose per lui sono difficili. A noi non regala niente nessuno. Ma siamo sognatori. A volte i sogni si realizzano e hanno un sapore migliore".
(estratto dall'articolo uscito l'11 marzo su la Repubblica, prima della gara di ritorno di Champions con il Milan)
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