Barry Copa, portiere ivoriano campione d'Africa, eroe della finale per via dei rigori parati e dell'ultimo segnato, ha annunciato l'addio alla nazionale. Questa è la sua storia.
A BOUBACAR Barry Copa avevano fatto un discorsetto, di quelli che iniziano e capisci dove stanno andando a parare. Sai com'è, l'età, le incertezze, gli errori. Insomma, sei fuori. Dopo tre Mondiali e sei Coppe d'Africa, è il momento di cambiare. È il momento di lasciare la porta della Costa d'Avorio a Sylvain Gbohouo, che è 9 anni più giovane, 10 centimetri più alto e 13 chili più potente. E che cosa può rispondere un trentacinquenne che si definisce "un giocatore modesto di un club modesto come il Lokeren"? Mormora sì, va bene, e siede in panchina.
Quando parla, Barry dice cose così: "Sono un credente. Non mi sparo alla testa solo perché non ho mai conquistato un titolo". Neanche uno, come tutta la generazione dei magnifici sconfitti. I Touré, Kalou, Drogba. Sconfitti, ma non perdenti. "Basta che stavolta si vinca, anche senza di me". In effetti succede che Gbohouo fa il fenomeno. Ferma il Camerun e para tutto contro l'Algeria. Ma il calcio toglie e il calcio dà. Il giovane fusto si fa male in allenamento e c'è la finale contro il Ghana. Come non detto, Barry, lo sai che sei speciale, giochi tu. E poiché come sostiene il Cheyenne di Sorrentino "bisogna scegliere una volta nella vita, anche solo una, in cui non avere paura", Barry sceglie. Deve essere questa. Così, dopo due ore di partita e i crampi alle gambe, arriva una cosa che non è più calcio. I rigori. La chiamano lotteria, come se fosse fortuna. Non è calcio perché è molto di più. Si gioca con la mente. È psicologia e studio dei segni, antropologia e linguaggio del corpo.
C'è chi ci infila pure Lombroso. Guardi in faccia chi va a tirare e indovini: "Questo sbaglia". Se davvero fosse una lotteria, tutti correrebbero a comprare il biglietto. Invece molti scappano. Ben Lyttleton, autore di Twelve Yards: the art and psychology of the perfect penalty sostiene che la grande paura di chi tira è deludere i compagni. Falcão si sfilò davanti al Liverpool e Thiago Silva davanti al Cile, mentre domenica sera Gervinho, fiero della sua debolezza, dava le spalle al campo seduto su una sedia di plastica, come al fresco di un gazebo scalzi si sta d'estate: defilato perché tre anni fa aveva sbagliato il tiro decisivo in finale contro lo Zambia. Sentiva il Paese sulle spalle nell'unico torneo vissuto come un Mondiale.
Ma quando al ventunesimo rigore della serie i calciatori sono finiti, tocca ai portieri segnare. A Barry, pallone sul dischetto e spasmi nei polpacci, viene in mente la lunga lista ivoriana di sconfitte ai rigori: la semifinale ‘94 con la Nigeria, i quarti ‘98 con l'Egitto, la finale 2006 con l'Egitto e la finale 2012 con lo Zambia. Eppure c'è un segno in cui credere. L'ultima Coppa vinta, 1992, sempre contro il Ghana, era arrivata alla fine di una serie di 24 rigori. Anche allora aveva tirato il portiere, si chiamava Gouamené. Il suo racconto: "Sentivo il piede destro paralizzato. Mi convinsi che non stavo tirando io, ma il mio Paese. Chiusi gli occhi e calciai di sinistro". Gol. E subito dopo prese l'ultimo al ghanese Baffoe. Segnare e parare, il massimo.
Nove anni fa di nuovo. Quarti di finale. Costa d'Avorio contro Camerun. La serie più lunga della storia. Al ventiduesimo tiro va il portiere Jean-Jacques Tizié: l'anno prima gli avevano dovuto asportare un testicolo, colpito in uno scontro dal ginocchio del nigeriano Ogochukwu Obiakor. Gol. E al tiro successivo Eto'o la manda in cielo. Celebri per essere brillanti quando non c'è pressione, gli ivoriani scoprono un improbabile eroe in Barry-portiere-bocciato, che in un solo istante controlla i crampi, l'ansia, i nervi, la fatica, i movimenti del corpo, i presentimenti, la rincorsa e l'angolo da dare al pallone. Il resto si sa. Segna, poi si tuffa e para il tiro del collega Razak. Festa nazionale. "Sono stato criticato. Non sono grande né di taglia né di talento. Ma lavoro. Oggi è il compleanno di mio figlio. Dio non fa le cose a caso. Sono felice perché mia madre soffriva quando non giocavo". La madre, ecco il gran finale. Quella del ghanese Asamoah Gyan si fece promettere in punto di morte dal suo ragazzo che non ne avrebbe tirati più dopo l'errore ai Mondiali 2010 contro l'Uruguay. E voi che la chiamate lotteria.
(uscito su la Repubblica il 10 febbraio 2015)
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