L'esultanza di Quagliarella a Bilbao |
A parlar male del calcio italiano non si sbaglia mai. Se la Juve va in fuga, il campionato è mediocre perché non ci sono alternative al suo potere. Ma se un giorno viene fermata dal Cesena, il campionato è mediocre perché è livellato verso il basso.
Se arriva un campione dall'estero (Tevez, Higuain, Gomez, fate voi), l'Italia accoglie gli scarti altrui. Se le stelle non ci sono più, i migliori se ne sono andati tutti, siamo una Lega di transizione e una volta qui era tutta campagna. Eppure a ogni mercato spunta uno dei club più ricchi al mondo con un pacco di milioni e viene a prendersi un giocatore della serie A. Il livello del gioco? Da noi è sempre pessimo. Per definizione. Se finisce 5-4 Leverkusen-Wolfsburg è stata una partita spettacolo, se finisce 5-4 tra Milan e Parma le nostre difese non sono più quelle di una volta. Se giochiamo in contropiede, la modernità sta nel tiki-taka, gli altri lo sanno, gli altri l'hanno capito. Ma se il possesso palla lo facciamo noi, allora diventa una noia mortale: e su, a cosa serve, nel calcio si deve tirare in porta. Giochiamo a ritmi bassi? Bravi all'estero con la loro intensità. Una nostra squadra corre più chilometri della sua avversaria (la Juve contro il Borussia)? Hanno corso a vuoto, era importante la gestione della palla. Se perdiamo, contava il risultato. Se vinciamo, abbiamo giocato peggio. Un giorno abbiamo deciso che del nostro calcio si deve parlare sempre e solo male: se oggi in Italia nascesse un altro Gigi Riva, diremmo che sa tirare in porta con un piede solo.
Se la Juve esce dalla Champions contro il Galatasaray, la colpa è del campionato poco allenante, delle provinciali che si chiudono in difesa e non abituano a giocare a tutto campo, a viso aperto, in modo europeo (il fatto che il campionato turco fosse "meno allenante" del nostro non è stato elemento di discussione). Ma quando bisogna indicare quali sono le squadre italiane che giocano meglio, facciamo i nomi dell'Empoli di Sarri e del Sassuolo di Di Francesco. Non è strano? Ovvio che la crisi c'è. Non sono sei vittorie in due notti a negarla. Ma sei vittorie in due notti forse possono servire a dirci che tutto questo buio che ci ostiniamo a considerare è meno buio di quanto crediamo. Qualche sera fa, in tv si sentiva che da noi arrivano solo pipponi. Tali devono sembrare i Dybala e i Cuadrado quando giungono semi sconosciuti, ma quando ripartono in cambio di 35 o 40 milioni l'accusa si ribalta: ce li siamo lasciati sfuggire. Il grande male ora è l'estero. Il male sono gli stranieri. Tanti, troppi. Ed è pure vero in un certo senso. Se ne comprano a pacchi, alcuni non vedranno mai il campo e ci lasciano il sospetto di essere arrivati, più che per sistemare le partite in campo, per sistemare le partite doppie. Eppure non sono loro a togliere il posto ai giovani italiani, visto che in campo non ci vanno mai. Chi gioca (55% di stranieri) il posto se lo guadagna in settimana, durante gli allenamenti, sotto gli occhi dell'allenatore. Il quale non sceglie tra un italiano e uno straniero. Sceglie tra uno bravo e uno meno bravo. E forse in questo momento di giovani italiani bravi non ce ne sono abbastanza. Mi spingo finanche a pensare che in questo momento, forse, i giovani italiani si dedicano al calcio meno che in passato: non so se per laurearsi o se per frequentare i talent. Ma la qualità di un campionato, che è fatto di calciatori italiani e stranieri, si giudica solo dal confronto in campo internazionale. E allora cinque squadre su cinque agli ottavi dell'ex Coppa Uefa, una volta considerata il termometro dei valori medi, qualche dubbio devono farlo nascere.
La medio alta borghesia del nostro calcio si mostra vitale. L'Inghilterra della meravigliosa Premier è rimasta in corsa nelle Coppe con 4 squadre, di cui due (Arsenal e Manchester City) con un piede fuori. Non possono essere sei vittorie in due notti a modificare un giudizio, certo, ma forse il giudizio apocalittico era esagerato già prima di questa settimana: forse i Milan di Allegri avrebbero potuto passare almeno un turno in più se non avessero preso il Barcellona; e il Napoli di Benìtez è uscito due anni fa dai gironi nonostante avesse fatto 12 punti, cosa mai accaduta in Champions. Oggi, per la prima volta dal 2010, il ranking Uefa dell'Italia accorcia le distanze rispetto alle nazioni che stanno davanti. In proiezione 2017, i punti di differenza da Germania e Inghilterra sono meno di quattro. Certo, bisognerà continuare con questo passo. Non sarà facile. Magari non le superiamo e restiamo quarti, ma stiamo guardando di nuovo avanti, mentre a maggio c'era chi parlava di sorpasso ormai prossimo da parte del Portogallo e forse pure da parte della Francia. Un conto è riconoscere che Real, Barcellona, Bayern, Chelsea sono di un altro pianeta, un altro è considerarsi al centro di una catastrofe.
(da Il Puliciclone del 2 maggio 2014: Eppure il calcio italiano è in ripresa.)
Non va tutto bene. Anzi. Il calcio italiano vive una crisi profonda nella sua classe dirigente, che è litigiosa, improponibile, provinciale. Una crisi morale. E ne vive una altrettanto profonda dentro la sua cassaforte. Non ci sono soldi. Punto. Non è difficile immaginare che una squadra si rafforza affiancando Neymar e Suarez a Messi. Lo faremmo anche noi. Potendo. Ma la Juve si è fatta venire delle idee anche a parametro zero (Pirlo, Pogba, Evra): questo è un merito, è un indicatore di qualità del lavoro. Il campionato italiano, sul campo, non è tutto da buttare. Un calcio senza guida sicura è già un calcio povero. Figuriamoci in tempo di crisi economica. Ci indigna scoprire che un derby a Marassi può saltare per la mancanza di un telone anti-pioggia. Ci intristisce vedere che il Parma mette all'asta i suoi mobili, che non ha l'acqua calda né il toner per le stampanti. Ma non possiamo avere bisogno di una lavanderia non pagata a Collecchio per scoprire un'Italia spiantata. Quello che sta capitando al Parma è già successo ad altri settori nella vita del Paese. Hanno chiuso ospedali, Pompei cade a pezzi e nelle nostre scuole sono i genitori a comprare i rotoli di carta igienica. Il calcio è a pieno titolo un'industria. Non esiste un'economia peggiore di quella italiana che abbia un campionato di calcio migliore. La verità è spesso banale. Se il Paese tornerà a crescere, avremo più campioni nelle nostre squadre. Se la serie A rischia di perdere un club per strada, come si può immaginare di avere la forza per comprare più campioni? Se dunque le condizioni sono queste, e sono queste, la qualità del calcio italiano - in campo - finisce per rivelarsi perfino più alta delle qualità che l'Italia può esibire in altri settori della propria vita pubblica. Il calcio dispone di manager apprezzati all'estero (Ancelotti per primo, ma anche Mancini Capello Spalletti), continua a esprimere una scuola tecnica vivace anche a livello internazionale (Montella) e riscopre a Bilbao la forza del suo piccolo grande artigianato locale (Ventura). Forse al calcio italiano, quello che va in campo nonostante la violenza, il razzismo e il vuoto di potere, dobbiamo solo ricominciare a volere un po' più bene.
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