mercoledì 18 febbraio 2015

Djuric e l'orgoglio di essere provinciali

djuric QUANDO Milan Djuric sprinta verso l'area della Juve con i suoi due metri d'altezza e apre il piattone sinistro davanti a Buffon, neppure s'immagina quello che sta per combinare. Papà Goran, centravanti della serie C jugoslava, è scappato da Tuzla che lui era un bebè. Bosnia 1991, su una sponda dell'Adriatico sta iniziando la guerra civile. Sulla nostra ci stiamo occupando di mucillagine.
I Djuric si lasciano alle spalle alghe e carrarmati; sbarcano da una zia che vive a Pesaro. Milan cresce lì, sempre incollato a un pallone, il Cesena va a dargli un'occhiata e dopo qualche minuto di provino porta dritto a casa questo ragazzone nel frattempo sedicenne, riservandogli il tipico cammino fatto di gavetta e prestiti. Problema da quinta elementare: se dal 2006 al 2015 la carriera di Djuric tocca Ascoli, Crotone, Cremona, Trapani, Cittadella e di nuovo Cesena, calcolare qual è il suo bacino d'utenza. Soluzione: piccolo così. E di questi tempi non ci fai una bella figura.


Quando Milan Djuric apre il piattone sinistro e calcia verso Buffon, è ancora un centravanti che ha segnato a ventidue avversarie, la più nobile delle quali è l'Udinese. Per il resto, un rosario di gol semi-invisibili i cui grani sono il Frosinone, l'Albinoleffe, il Portosummaga e il Chieri. Tutto qui. E la Juve? Sì, gli hanno detto che esiste, da qualche parte, ma in fondo chi l'ha vista mai. Ecco allora a cosa serve quel pallone finito alle spalle del portiere della nazionale: grida l'esistenza di un mondo sommerso che a questo divertimento che rotola ha dedicato i suoi anni migliori. Glieli ha dedicati comunque. Anche dalla periferia dell'impero. Gente che ha sudore fatto di acqua e ioni esattamente come quello di Klose. Dagli un'occasione e se la prendono. Eppure c'è stato un tempo in cui la provincia non aveva bisogno di riscattarsi da nulla, la sua dignità era indiscutibile. Il Milan poteva perdere scudetti cadendo a Verona (1973 e 1990), la Juve proprio a Cesena (1976, due gol di Bertarelli) oppure a Perugia (2000), la Roma in casa con il Lecce (1986), mentre il Verona ne vinceva uno (1985) e in Europa brillavano Atalanta e Vicenza (semifinali di Coppa delle Coppe 1988 e 1998).


Il Chievo, nove anni fa, giocava addirittura i preliminari di Champions (2006). Udine poté permettersi Zico, e in giro per l'Italia c'erano piccoli grandi eroi di un calcio dal benessere e dalla partecipazione diffuse: la "legge del Partenio" ad Avellino, il Pisa di Berggreen, il Catanzaro di Palanca e l'Ascoli del quarto posto. E tutto pareva così ordinario, naturale, sia per la riproposizione sul campo della storia comunale italiana (è la lettura di Brera) sia per le radici poco metropolitane del nostro calcio: infatti Milano domina non prima degli anni ‘50, mentre Roma vince due titoli di fila solo fra 2000 e 2001. Poi un giorno gli allenatori hanno iniziato a misurare i monte ingaggi e i presidenti i bacini d'utenza. Così anche noi tifosi siamo diventati un po' commercialisti: vendono il nostro campione preferito e ci interessa sapere se almeno c'è stata plusvalenza. Ora che questo mondo si regge per il 65% con i soldi delle tv, i ricchi diventano più ricchi e i loro amici più poveri degli inconsapevoli mastri don Gesualdo. Gli altri? Si arrangino. Gli albi d'oro sono qui a raccontarci la monotonia del calcio nell'era delle pay-tv: tre squadre hanno vinto 20 degli ultimi 22 scudetti. Periferie e anomalie sono bandite, contrariamente a quanto fa l'Uefa, che in Champions preferisce tener fuori un'italiana o una spagnola per lasciare un posto a sloveni, ciprioti e bulgari. La stessa Fifa, che non è proprio una congrega di asceti, ingoia il fatto che ai Mondiali ci siano Trinidad o Nuova Zelanda, raramente la Cina, e proprio mai India e Indonesia. In Coppa Italia le nostre grandi vanno di diritto agli ottavi, la Germania ha mandato avanti due di C e una di D, l'Inghilterra una di C ai quarti. Questo allora succede a Cesena, questo fa di enorme Djuric. La mette alle spalle di Buffon e ci costringe ancora a restare attaccati a questa noiosa abitudine di stabilire chi è più bravo contando il numero dei gol.

(uscito su la Repubblica il 17 febbraio 2015)

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