venerdì 28 agosto 2015

L'America e i suoi fuochi artificiali

Un negozio di fuochi d'artificio in South Carolina
Piove anche mentre attraverso la contea di Palm Bay. L’uscita per Melbourne promette food and gas. C’è una donna a un tavolo che ha come preso in ostaggio un’altra signora, pure lei bloccata dall’acquazzone. Le parla senza darle il tempo di far suo il sandwich appena comprato. Dice che il marito a casa non c’è mai, lavora lavora, sempre lavora, certe volte esce anche nel fine settimana. Melbourne fa circa 80mila abitanti, la disoccupazione è al 4 percento. Il grosso è impiegato nel comparto hi-tech fiorito intorno alle tante compagnie che operano nel settore della sicurezza e della difesa. Viveva a Melbourne negli anni ’40 l’uomo che sarebbe diventato il contrammiraglio George Stephen Morrison, venti anni più tardi alla guida della flotta nel golfo del Tonchino, quando uno scontro fra quattro  torpedinieri vietnamiti e lo Uss Maddox, americano, diventò per il presidente Johnson l’occasione per attaccare il Vietnam del nord. La donna racconta che lei però da tempo s’è insospettita. L’altra, col panino a mezz’aria, adesso è un po’ rassegnata e un po’ incuriosita. Dice che ha fatto seguire il marito e ha scoperto quello che cercava ma che forse non avrebbe voluto mai sapere. “Ha una storia con la sua segretaria, il porco: ecco qual è questo lavoro, lavoro, lavoro”. Nel ’43 George Stephen Morrison prendeva lezioni di volo alla Naval Air Station Pensacola. Un paio di settimane prima di Natale, sua moglie Clara partorì il loro primo bambino, James Douglas, che a dire il vero un po’ tutti nel mondo avremmo preso a chiamare Jim. Jim Morrison. Quel Jim Morrison. 


Oltre il Mc Donald’s e Subway, sette miglia più a sud, verso l’Indian River c’è la casa in cui è nato Jim. 1250 South Harbor City Boulevard. Un edificio chiaro, basso, ovale, il prato alto tutt’intorno. La ragazza che serve i panini racconta che è ancora un andare e venire, gente che si ferma a Melbourne per questa specie di pellegrinaggio laico e musicale, ma la prima vera casa di Jim in realtà è un’altra, 2100 Vernon Place, mi confida, e pochi lo sanno, pochi ci vanno. Non andarci neanche tu, aggiunge, non c’è niente da vedere, è un cantiere con degli operai, pare che vogliano farci un pub. E poi Jim qui c’è stato poco, pochissimo, con il papà lontano la madre lo portò presto dai nonni, a Clearwater, sul golfo del Messico, dove avevano una lavanderia.  Cosa ci stavano a fare a Melbourne?
Faccio come dice. Non ci vado. L’ultimo tratto vivace di Florida, due ore e mezzo più tardi, è alle porte di Jacksonville. Per un motivo misterioso, nella fettina di Interstate 95 North ai bordi della città le macchine sfrecciano senza darsi vincoli. Il traffico si sfrangia. Un milione di abitanti. Più o meno Napoli. La prima volta che ho sentito nominare Jacksonville fu per via di Bob Hayes. Bob Hayes era l’uomo più veloce del mondo quando sono nato. Da bambino, verso i miei nove dieci anni, mi piaceva andare a vedere cosa fosse accaduto nello sport nel mio anno, il 1966. E Bob Hayes nel ’66 aveva il record mondiale dei 100 metri. Nato a Jacksonville, imparai. Ho imparato la geografia più o meno in questo modo. E’ l’unico sportivo ad aver vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi e ad aver vinto pure un campionato di football americano, il famoso Superbowl. E’ diventato grande quando essere afroamericano a Jacksonville dava qualche problema. Jacksonville è un posto a cui il progresso ha tolto la sua età dell’oro. Verso la fine dell’Ottocento era l’area turistica che attraeva i ricchi d’America. Quando la ferrovia si spinse oltre, fino a Palm Beach e poi a Miami, diventò una fermata dove al massimo scendevi a prenderti una gazzosa. Così fece anche il cinema, che nel giro di qualche decennio voltò le spalle a quella che era stata brevemente Hollywood prima di Hollywood.
La notte di Savannah, Georgia
Oggi a Jacksonville resta il primato della più grande festa americana di fuochi d’artificio del 4 luglio. L’ho scoperto più in là, attraversando la South Carolina. Scavalcata la Georgia e Savannah (ottima cobb salad con pollo a River House, 125 West River Street), poco oltre il confine statale, lungo i bordi della strada prospera una serie interminabile di negozi di fuochi artificiali. Tanto da chiedersi perché. Perché la South Carolina è uno degli Stati che ne consente la vendita di fatto senza restrizioni. Altrove non è così. Più a nord il Delaware, il Massachusetts e il New Jersey sono i tre stati che vietano del tutto sia l’uso dei botti sia il loro acquisto. La Virginia, come la Florida e altri 14 stati, consentono la vendita solo dei fuochi chiamati “safe and sane”. Bengala, fontane, lucine. Tutto ciò che non esplode. I divieti sono legati anche ai periodi dell’anno e alle stagioni. Il consumo è limitato a 500 grammi di materiale, di cui non più di 50 milligrammi di polvere da sparo. C’è un limite pure per il diametro. Altrimenti serve una licenza. Ma è una consuetudine attraversare il confine degli stati, a volte solo di una contea, per comprare un fuoco che in casa propria è stato dichiarato fuorilegge. In South Carolina lo sanno. I commercianti si sono piazzati in massa lungo i confini. Ho scoperto che nel West la stessa funzione viene svolta da alcune delle tribù di nativi americani, esenti dalle leggi locali: vendono fuochi d’artificio.
Negozio di fuochi artificiali in South Carolina
Mi viene in mente E.L. Doctorow, morto proprio qualche giorno prima del mio viaggio. Nel suo romanzo “Ragtime” c’era una famiglia che vendeva bandiere e fuochi artificiali, da lì poi si partiva per una riflessione sul rapporto fra il patriottismo e l’istinto di fare la guerra (in Italia invece un anno fa mi incantò “Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo”, di Vincenzo Gambardella, la storia di un prete e del suo chierichetto che girano le feste di paese con i loro spettacoli di polvere). I fuochi, di questo rapporto, sono un riflesso un miniatura. Raccontano una volta di più che questo paese non dovremmo semplificarlo al singolare, di America non ce n’è una sola. “Out of many, one”  come dicono loro di sé e com’è scritto sullo stemma della nazione. “E pluribus unum”. Vale per i fuochi, per le armi, per la pena di morte, per la segregazione razziale. Sto arrivando a sud, e si sente.
(2. continua)

Nessun commento: