mercoledì 26 dicembre 2018

Il Progetto Utopia del Cagliari

È qui che bisogna posare lo sguardo al termine del giro nell'Italia da ritrovare, a Cagliari, dove per la prima volta dopo 67 campionati – era il 1970 si fermò uno scudetto al Sud. «La vittoria di una minoranza» scrisse Arpino, che «ha ridato lustro a una dignità che poteva essere solo privata». Era il Cagliari di Riva detto da Brera Rombo di tuono, era una Serie A che fra il '69 e il '91 distribuiva scudetti a 11 squadre differenti: per cinque di loro era il primo, per sei fu pure l'ultimo. Trovarono condizioni oggi negate, tanto da far dire a Giuseppe Tomasini, 72 anni, all'epoca dello scudetto difensore, che «questo è un calcio da fine del mondo. Se tutto è deciso a dicembre, non lo guardo più. I club erano proprietari dei cartellini, otto di noi si sono fermati a vivere in Sardegna, oggi i procuratori ti spingono a cambiare. Non bisognerebbe scriverne nelle pagine di sport ma in quelle di economia. Mezza Italia è tagliata fuori».
Per raccontare il calcio degli esclusi è qui che bisogna posare lo sguardo perché Cagliari non deve rimproverarsi nulla. Avrebbe tutto per un'altra corsa. Ha il progetto per uno stadio di proprietà da 25mila posti. Ha 10.400 abbonati e una percentuale di riempimento dell'impianto attuale, la provvisoria Sardegna Arena, del 90%. Ha una fan base –uno dei parametri del calcio moderno - di un milione e mezzo di persone, per intendersi il triplo della popolazione di Leicester. Ha ricavi commerciali per il 25% del fatturato. Ha un'Academy con centri di formazione fino a Olbia.
Ha buone idee nel merchandising (la vendita della maglia vintage coi laccetti al collo) e in ambito sociale, come la scuola di tifo per ragazzini e la creazione del settore "Curva Futura". Eppure, intorno a tanta virtuosità, c'è un sistema che per sua natura spingerà a vendere Barella e tutti i Barella che verranno. Perché Cagliari non deve poter vincere più?
Alberto Scanu, 51 anni, è il presidente di Confindustria Sardegna e ad della società di gestione dell'aeroporto. «La quantità di capitali necessari a vincere – dice – non è compatibile con il tessuto economico di molti territori, che però meriterebbero di più per la qualità dei progetti. Sarebbe interessante usare il calcio come laboratorio per una vera Unità d'Italia, per il diritto a un riequilibrio delle forze».
Marcello Fois, scrittore e sceneggiatore, ragiona sul fatto che «il calcio è materiale attivo di questa nazione. Ha i suoi stessi battiti. Il dominio attuale della Juventus è il risultato di una mutazione figlia del '94, di una stagione in cui il capo assoluto della nazione possedeva una squadra. Non è molto diverso da ciò che è capitato alla società, nella quale si è allargata la distanza fra chi ha tutto e chi non ha niente. Investire nel calcio significa altro: chi ha più soldi, ha più merce». Fois è tifoso anche della Juve, «perché nella Sardegna della mia infanzia esisteva un doppio binario: si compravano un quotidiano locale e uno nazionale, si tifava per il Cagliari e per una continentale. Riva ci fece sperimentare l'appartenenza della Sardegna a una nazione più ampia. Un esercizio di partecipazione. Lo scudetto fu un tratto di mare in meno da percorrere».
Il calcio italiano di oggi è tanta acqua fra due sponde distanti. Dice Mario Passetti, dg del Cagliari: «Colmare il gap? Non può dipendere solo dalle nostre attività. Bisogna che il sistema Italia, lacunoso, si preoccupi di creare un valore del calcio e di dividerlo in modo più equo. La Sardegna è una terra dimenticata, si parla di noi solo quando comincia a battere il sole a giugno. È inverosimile che con il 4% dei tifosi in Italia, come Fiorentina e Lazio, nella distribuzione delle risorse siamo così indietro. In Inghilterra, con una politica interna lungimirante e positiva, la città di Manchester ha potuto trovare investitori e successo. Dall'equità è nata una storia come quella del Leicester, o come potrebbe essere il Leeds futuro. Ci auguriamo che con uno scossone e un cambio di rotta sia possibile a tutti competere per la Champions. Purtroppo i nostri grandi club sono più attenti a strutturare la Superlega che a lavorare su un sistema che dia benefici a tutti». Giorgio Porrà, giornalista di Sky e cantore del calcio di valori, osserva: «Noi sardi abbiamo uno smisurato orgoglio etnico. Con la presidenza Giulini vedo un risveglio. A Scopigno chiedevano: com'è il vivaio? Rispondeva: il vivaio di cozze è buono, il resto no. Ora dall'Academy salta fuori Barella, e non solo. Vedo il recupero di valori antichi e del senso d'appartenenza».
Cagliari si sente in marcia verso qualcosa di grande. «Come si diceva giorni fa con l'arcivescovo racconta il sindaco Zedda - solo coltivando l'utopia accade agli uomini di realizzare l'irrealizzabile. Bisogna trovare le persone giuste. Scommettiamo sulla forza della comunità. Era difficile vincere anche negli Anni 70 ma i giocatori si resero indisponibili ad andarsene. Scelsero una città, una parte, e lo so che oggi il dato economico è prevalente e genera un doppio livello. Ma quando in campo entrano cuore e passione, non ci sono battaglie impossibili, altrimenti il Sudafrica non avrebbe mai vinto i Mondiali di rugby». È il Progetto Utopia. Del Cagliari e di mezza Italia.

(la Repubblica, 21 dicembre 2018)

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