giovedì 2 giugno 2016

Calcio e potere in Argentina


Se era vero che "perfino in Vaticano parlano solo di calcio", come sosteneva Osvaldo Soriano, figurarsi adesso che in Vaticano c’è un papa argentino. Non esiste angolo della Terra in cui il potere abbia resistito alla tentazione di maneggiare a modo suo il pallone, non esiste sulla Terra un posto in cui accada più che in Argentina.
Qui il pallone non è mai solo un gioco, qui un presidente non è solo l’inquilino di Casa Rosada. Lo stadio di Avellaneda porta il nome di Juan Domingo Perón, quello di Córdoba pure. A sua moglie Evita ne intestarono uno a Junín con tre giorni di feste solenni, nei quali si tennero gare di lancio del disco al pomeriggio e banchetti sontuosi di notte, come in un romanzo, forse meglio. C’è uno stadio Nestor Kirchner da sei anni a Palpalà e sua moglie Cristina fermò all’ultimo momento la macchina che stava per dedicarle quello di Garupà.
L’uso del calcio da parte del potere, in Argentina si associa all’uso del potere da parte del calcio. In piena Década Infame (la dittatura 1930-1943), la nazionale giocò una finale mondiale e furono costruiti gli stadi di Boca e River, le due religioni di Baires. Rivali in tutto, i club si unirono nell’omaggio al generale Justo, facendolo socio. Era consuetudine dare a Perón la carica di presidente onorario, i tifosi ne mettevano la faccia sulle bandiere: il governo garantiva sussidi. Perché il terzo vertice non secondario di questo triangolo sono le barrabravas, gli ultrà che fanno centinaia di morti ma che comunque vanno alle urne.
La giunta di Videla usò la gioia del Mundial '78 per coprire il dramma dei desaparecidos. Il calcio argentino è un impasto di populismo e mistica. Perciò trent’anni dopo Jorge Valdano si rimprovera d’aver esultato al gol post Malvinas di Maradona agli inglesi con la mano. Per questo si dice convinto che se Diego avesse confessato, l’Argentina oggi sarebbe un Paese migliore.

(da la Repubblica del 2 giugno 2016)

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