mercoledì 22 giugno 2016

O'Neill, la corsa di un irregolare

NELLA residenza del governo di Dublino, di fronte a Mary McAleese, seconda donna presidente d'Irlanda e la prima a venire dall'Ulster, Martin O'Neill prese il microfono e spiegò cosa volesse dire sentirsi figlio di questa faccenda così complessa e spesso insanguinata. Quest'uomo che porta un paio di occhialetti d'altri tempi e parla sotto voce ha studiato legge all'università di Belfast, viene dalla stessa scuola primaria frequentata da due futuri premi Nobel (John Hume e Seamus Heaney) e sulle sue rughe da ex calciatore atipico è passato più di un riflesso della storia delle due Irlande. «Sono troppo pieno di anomalie e contraddizioni per potermi dire perfetto». Una vita da irregolare.
Oggi è il primo allenatore dell'Eire a venire dal nord dell'isola, dal nord del nord, non lontano da Derry, dove suo padre Leo faceva il barbiere e gli diede il nome del patrono della categoria, un santo afro americano. Avevano in casa un'immagine del cuore di Gesù e una foto di Patrick Pearse, poeta dell'identità gaelica fucilato dagli inglesi dopo l'insurrezione di Pasqua del 1916. Alla porta di quella famiglia sarebbero andati a bussare un giorno gli uomini della federcalcio di Londra per offrire a Martin la panchina della Nazionale inglese. «Un altro dei paradossi della mia vita». I cattolicissimi O'Neill, nove figli, repubblicani in un'area di settarismo, avevano lo sport in cima ai pensieri. Erano anni in cui i piloti d'aereo che atterravano a Belfast avvertivano i passeggeri dalla cabina: sistemate le lancette sul fuso orario locale, il 1690. Martin giocava a calcio gaelico come i fratelli, da bravo Irish, ma a lui solo piaceva pure l'altro football, quello British, ed era vietato. La regola 27 dell'associazione proibiva ogni altra attività negli sport cari ai nemici: rugby, cricket, calcio. Non si poteva neppure guardarli in tv. All'irregolare O'Neill vietarono di giocare. «Cominciai a riflettere sulla mia identità quel giorno». Il calcio lo risarcì con la Coppa d'Irlanda vinta con il Lisburn Distillery a 19 anni, un gol al Barcellona in Coppa delle Coppe e un'offerta da 25mila sterline del Nottingham Forest. Quando il ct dell'Irlanda del nord gli diede la fascia da capitano, primo cattolico della storia, Martin domandò se fosse una mossa politica. «Parli meglio di tutti». La Bloody Sunday del gennaio '72 lo aveva reso bersaglio di diffidenza nello spogliatoio del Nottingham. «Un paio di commenti di un certo tipo ti rendevano un sospetto fiancheggiatore dell'Ira». Con Brian Clough rapporti pessimi. «Voleva essere chiamato in caso di problemi. Ma io preferivo sbagliare da solo, anziché sentirmi un suo clone». Un giorno a Dougan del Wolverhampton venne l'idea di mettere in campo una squadra dell'Irlanda unita. Ci sto, rispose Martin. Non aveva problemi con i protestanti. Ci stettero in molti e pure il Brasile, disposto a giocare un'amichevole. Le federazioni si opposero, la squadra non fu ufficiale, Dougan perse la Nazionale. Papà Leo espresse un desiderio. «Se ti chiama il Celtic, molla tutto e vai». Il Celtic chiamò davvero nel 2002, voleva il Martin allenatore. Dopo tre scudetti O'Neill lasciò la panchina perché sua moglie Geraldine s'era ammalata di cancro. «Non fate quella faccia», disse, «non ho nessun monopolio sui guai. Accade a tanti». Ma le anomalie non lo hanno lasciato. «Lo sport è una palestra di tolleranza », ma prima degli Europei ha macchiato la sua storia di uomo sensibile con frasi sessiste e omofobe sulle calciatrici. L'erede di Trapattoni dopodomani sfida l'Italia.
(su Repubblica, il 20 giugno 2016)

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