sabato 27 marzo 2010

Barbosa, la vittima del Maracanazo


Mentre salivano le scalette che dagli spogliatoi del Maracanã portavano al campo, Obdulio Varela detto El Jefe prese in disparte il suo compagno Omar Míguez e gli disse: "Guarda che faccia da stupido ha il portiere, vorresti farmi credere che proprio tu non sei in grado di segnargli almeno due gol?" Il portiere ero io. Moacir Barbosa. Il primo portiere nero nella storia del Brasile. E me l'avrebbero fatta pagare. Ci bastava un pareggio nell'ultima partita del Mondiale, nel nostro stadio, per vincere la Coppa. Non esisteva finale nell'edizione del '50, il titolo sarebbe stato assegnato da un girone, Brasile-Uruguay decideva tutto. Come ha scritto Eduardo Galeano, "per vedere quella partita, i moribondi rinviarono la loro morte e i neonati si sbrigarono a nascere". Il 16 luglio del '50.
È stato il calcio a fare del male a me. Da quel giorno lì, da quel gol che avrò rivisto un milione di volte in vita mia. A nove minuti dalla fine del Mondiale, l'uno a uno ci rendeva campioni. Come credevano tutti, come volevano tutti. Tranne gli uruguagi. Pensavamo già alla folla e alla sua festa, ai motori delle limousine che si sarebbero accesi, fra poco si va, fra poco alziamo la Coppa. E poi successe. Il Maracanaço, il disastro del Maracanã.


Ghiggia scatta a destra e Julio Perez lo vede, dopo essersi liberato con un dribbling. João Ferreira detto Bigode, uno dei miei terzini, corre incontro a Ghiggia e allora io mi sposto leggermente verso destra per aspettare il cross. Erano le 4 e 33 del pomeriggio. L'attimo che mi ha cambiato la vita. Lascio un piccolo spazio fra me e il palo, Ghiggia chiude gli occhi, raccoglie le ultime energie che gli sono rimaste e la mette lì, fra la mia mano e il vuoto. Rimasi fermo, lo sguardo a terra, un ginocchio piegato. Luis Mendes alla radio ripeté per nove volte le stesse parole, solo quelle, Gol do Uruguai, sempre più lento, sempre più triste. Gli occhi dello stadio erano su di me. Il silenzio del Maracanã ha fatto rumore per cinquant'anni dentro la mia testa.

 


Si racconta di decine di infarti allo stadio e decine di suicidi nel Paese. Si racconta di un ragazzino che il giorno dopo venne trovato allo stadio con la faccia tra le mani, singhiozzava e mormorava Nunca mais, nunca mais, Mai più mai più. I miei giorni successivi furono impossibili. Li ho trascorsi provando a raccontare che non era stata colpa mia, che Bigode non doveva lasciare tanta libertà a Ghiggia. Il solito Obdulio scavò nel realismo fantastico di noi sudamericani e provò ad assolvermi.  "La colpa non fu di Barbosa", disse, "quella palla la fece entrare il destino". La pena carceraria più lunga in Brasile è di trent'anni. Io ne ho scontati cinquanta senza avere commesso nessun reato. Dissero di tutto. Che avevo fatto passare la palla di proposito. Che un nero in porta non ci sa stare. Che la maglietta bianca non andava più indossata, e da quel giorno il Brasile l'ha cambiata. Per strada la gente mi indicava, mi evitava. "È Barbosa, porta sfortuna".

Negli anni Cinquanta non si diventava ricchi con il calcio, figurarsi quando con il calcio avevo smesso. Tredici anni dopo quella partita, seppi che il Maracanã stava cambiando le porte. Andai a prendere quella in cui Ghiggia mi aveva fatto gol. La sera, invitai degli amici a casa per un barbecue, l'aria puzzava di vernice, nessuno si accorse che nel fuoco bruciava il legno bianco dei due pali. È stata la bistecca più buona ch'io abbia mai mangiato in vita mia. Poi mi hanno abbandonato pure gli amici. Ho lavorato come custode in una piscina, da Rio sono andato via quando la mia Clotilde è morta. Ho tirato avanti con una piccola pensione, nella casa di mia cognata. Un giorno al supermercato una donna mi riconosce, mi indica a suo figlio e gli dice: "Lui è Barbosa, quello che ci ha fatto perdere il Mondiale". E il bimbo scoppia a piangere. Per anni ho desiderato che il Brasile smettesse di odiarmi, mi bastava che mi dimenticassero. Non è successo mai. Nel '93 mi venne voglia di andare a salutare la nazionale che stava preparando una partita di qualificazione per i Mondiali americani. Bussai alle porte del ritiro, le porte rimasero chiuse. Sei Barbosa? Sei quel Barbosa lì? Non mi lasciarono entrare, dissero che non si poteva. E mentre mi allontanavo sentii una voce che mormorava agli uomini della sicurezza: "Mi raccomando, non fatelo più tornare". Era Zagallo.

All'inizio giocavo all'ala, ero velocissimo, ma non mi piaceva correre. Un giorno decisi di smettere, correte voi, io mi metto qui. In porta. Nessuno ha più avuto voglia di ricordare che vinsi scudetti e campionati sudamericani, con la nazionale una Coppa America. Che sapevo bloccare il pallone in volo con una mano. Ero una stella, proprio così. Fino a quel giorno dei moribondi e dei neonati. Doveva vincere il Brasile, un altro epilogo credevamo non fosse scritto né in cielo né in terra. Ci sbagliavamo. Ognuno di noi aveva all'esterno dello stadio una limousine con il nome scritto sulla fiancata. Avremmo dovuto usarle per la sfilata tra la folla. Noi, la Coppa, l'innocenza e l'allegria. Il carnevale del pallone. Era stato venduto mezzo milione di magliette con la scritta Brasil campeão. Il giornale O Mundo pubblicò la nostra foto in prima pagina sotto il titolo Estes são os campeões do mundo, questi sono i campioni del mondo. Il generale Ângelo Mendes de Morais fece un piccolo discorso al centro del campo, disse: "Voi, brasiliani, tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti". Il presidente della Fifa, Jules Rimet, s'era preparato un discorso in portoghese per la nostra premiazione. Tutto prima, tutto prima della partita. Gli uruguayani trovarono centonovantanovemila ottocentocinquantaquattro spettatori allo stadio e il loro spogliatoio in condizioni indecenti. Allora se ne andarono a correre in un parco vicino al Maracanã, quando rientrarono allo stadio attaccarono le pagine dei quotidiani brasiliani alle pareti dei loro gabinetti, e lì non si trattennero. Poi salimmo tutti insieme le scalette e il capitano Obdulio Varela detto El Jefe disse quello che disse, a mezzo metro dalla mia faccia. Ne avevo sopportate altre, nella vita. Una volta un barbiere di Porto Alegre sulla stessa faccia mi aveva spalmato della schiuma, mi disse: "Vattene, qui non serviamo negri". Venivo da Campinas, all'epoca in cui ero ragazzo l'industria del caffè stava andando in crisi. Per questo avevo seguito un corso di falegnameria, poi per permettermi gli studi di chimica farmaceutica lavavo i vetri del Laboratório Paulista de Biologia. La mia Clotilde l'ho conosciuta in quel periodo lì. Quelli dell'Ipiranga di San Paolo mi video giocare, poi sarebbero arrivati il Vasco da Gama e la nazionale. Mi dicevano che ero troppo gentile per sopravvivere in un mondo ruvido come quello del calcio, ma io sono contento di non aver mai fatto del male a nessuno, né su un campo di calcio né fuori.

Moacir Barbosa è morto un venerdì di aprile del 2000. Al suo funerale non c'era neppure un calciatore.

  (Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Moacir Barbosa sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)

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1 commento:

nicug ha detto...

Son rimasto indietro. Oggi devo leggere gli ultimi tre.