mercoledì 26 ottobre 2022

Il cinema dentro Rebibbia

Oltre il rosso matto della guardiola, una volta chiuso il cancello alle spalle, ci sono diciotto scalini da scendere, lasciandosi sulla destra il braccio G12 e la sala per i colloqui, prima di entrare in un teatro da 340 posti, dove a Rebibbia si tramanda il ricordo della più fulminante recensione mai ascoltata: “‘A Infasce’, manco quanno è nato mi fijo ho pianto così”. Alex Infascelli, regista di Mi chiamo Francesco Totti, passò così l’esame della platea più esigente di Roma e dintorni, i 1600 detenuti tra Ponte Mammolo e la Tiburtina, cinque minuti a piedi da quella piazza Ferriani dove per un po’ visse Pasolini. Una comunità di persone che se spende un paio d’ore davanti a uno schermo, non vuole gettarle via. Non ha tempo da sprecare e non può chiamarlo tempo libero. Quando un regista porta un suo film dentro il Teatro Libero di Rebibbia, scopre il petto al vento, misura quanta distanza ha messo tra la sua arte e la sincerità. La Fondazione Cinema per Roma contribuisce a costruire il cartellone. Ieri la Festa ha portato in anteprima L’Ombra di Caravaggio di Michele Placido. Due ore di buio e di silenzio teso, per la storia di papa Papa Paolo V che mette un uomo dei servizi a seguire il pittore condannato a morte per omicidio. Deve capire se può concedergli la grazia.

Dentro le carceri, un tempo il cinema veniva a girare i suoi film e quando spegneva le luci, se ne andava. Da Rebibbia non esce più. È un ponte con l’esterno. Paolo Taviani è tornato giorni fa a dieci anni di distanza da “Cesare non deve morire”, premiato a Berlino e girato con una ventina di detenuti per attori. C’erano quasi tutti alla rievocazione, da uomini liberi. Il Centro Studi Enrico Maria Salerno cura quotidianamente la promozione di attività teatrali, cinematografiche, editoriali. Fabio Cavalli dirige e coordina. Sei anni fa portarono il cortometraggio Naufragio con spettatore alla Mostra di Venezia. “Non dobbiamo formare attori - dice - ma tenere accesa una luce. Gli effetti dell’arte nelle carceri è misurabile. La recidiva nel reato di chi frequenta un percorso di recitazione o di musica scende al 10 percento, rispetto alla media del sessantacinque. Qui il lockdown è stato più feroce che altrove. Tutte le iniziative si sono fermate. Riallacciare un filo è stato difficilissimo”.



Nella casa circondariale femminile, la più grande d’Europa, 350 detenute, opera la compagnia Le Donne del Muro Alto. Alla Festa del Cinema, domenica, hanno portato lo spettacolo “Medea in sartoria”, il primo scritto fuori dalle mura con ex detenute o ammesse alle misure alternative. In scena: tre di loro e tre studentesse del dipartimento di scienza della formazione di Roma Tre, future educatrici in carcere. Francesca Tricarico, la regista, si batte dal 2013 per non limitare le attività a cucina e sartoria. La compagnia è nata per le sezioni Reati Comuni e Alta Sicurezza, tra madri alle quali erano appena stati sottratti i bimbi che fino all’età di tre anni possono tenere con sé nel nido, ma non oltre. In lockdown hanno trasformato gli spettacoli in un audiolibro e hanno trovato un magistrato di sorveglianza così coraggioso da autorizzare progetti di inclusione lavorativa vera e propria, e dunque una turné. “Ramona e Giulietta - racconta Tricarico - è stato scritto da noi, ispirato alla prima unione civile celebrata in un carcere italiano, proprio qui a Rebibbia. Quando siamo arivate a Siena, una delle attrici si è sdraiata su un prato e mi ha detto che guardava un cielo diverso da quello di Roma per la prima volta. Un’altra, a Torvaianica, mi ha confessato di non aver mai visto il mare. Per una donna che commette un reato, lo stigma sociale è più grande e con loro lo portano i figli”. Dice Andy Dufresne in “Le Ali della Libertà” che “c'è qualcosa dentro di te che nessuno ti può toccare né togliere, se tu non vuoi. Si chiama speranza”.

[uscito su Repubblica Roma il 19 ottobre 2022]

Nessun commento: