sabato 22 ottobre 2022

Come parlano i romani al cinema

Duemila e 800 anni prima di Zerocalcare, Roma non aveva ancora il suo primo re, ma aveva già una lingua pronta per il cinema. Non c’erano i buffi, nessuno che spiccia casa, ma una società primitiva unita da parole che non avremmo conosciuto mai. Non ne hanno lasciato di scritte, il protolatino noto dai primi ritrovamenti è successivo di un bel po’. Eppure, l’ipotesi di una parlata dell’ottavo secolo avanti Cristo è sullo schermo, venduta in 40 paesi con la serie Romulus II - La guerra per Roma, prodotta da Cattleya e Sky, presentata alla Festa del Cinema e dal 21 ottobre sulla pay tv, in streaming su Now.

Il Signore degli Anelli si è inventato l’elfico, Avatar ha fatto conoscere il Na'vi, due latiniste hanno lavorato per aggiungere la lingua di Romolo a quella di Sordi e Fabrizi. Hanno ricostruito un latino che non si studia nelle scuole, ma con una base scientifica. Si sono date un metodo comparativo tra lingue indo-europee, cercando un carattere comune a strutture affini. Daniela Zanarini spiega che “non è la lingua colloquiale né la lingua aulica dei re, si tratta di un grosso compromesso, un lavoro di immaginazione sulla base di una filologia corretta”. Gianfranca Privitera, sua compagna in questa fantasia colta e pop, racconta che “il sapere andava usato e tacitato, per costruire una lingua precedente a quella che conosciamo.

Bisognava cercare il senso della distanza, un latino che fosse rappresentazione del pensiero magico del tempo”. Romolo ha dato una mano. Se è vero che offrì asilo a quanti volevano vivere in Roma, compresi lazzari e assassini, la sua lingua non poteva che essere un impasto di prestiti, “il lessico dei naviganti - dicono le docenti - degli emigranti in una Roma mossa e irrequieta, la lingua della commistione e della mescolanza”. Hanno usato la struttura paratattica del greco di Omero. Hanno privilegiato i suoni forti e duri, quelli che al nostro orecchio sembrano arcaici. Si sono poste il problema di “come far parlare una comunità rozza, probabilmente priva di un pensiero articolato, con frasi semplici, senza subordinate, nelle quali il concreto prevale sull’astratto”, ma con esigenze di sceneggiatura, con “la presenza di personaggi complessi che conoscono odio, gelosia, elaborano un senso del divino”. Un processo di immaginazione fonetica.

Un esempio? Un uomo malvagio poteva essere un monstrum, ma con la stessa parola il latino classico indica qualcosa di meraviglioso. “Allora abbiamo recuperato il Mormò - racconta Privitera - lo spauracchio con cui le mamme minacciavano i bambini nel mondo greco. Lo dice Platone. Mormò rappresenta la repulsione e il terrore verso il deforme”. Quando Roma parla al cinema, non è mai una storia che lascia indifferenti. Prima che Alberto Sordi dicesse al maccarone io me te magno, è stato il dialetto della capitale a celebrare un’età nuova, con la voce di Anna Magnani che in Roma città aperta grida a Marcello, “devi anda' da don Pietro, sbrigate", oppure quella di Lamberto Maggiorani in Ladri di biciclette: “Mari’, dimme se nun so' disgraziato”. La televisione sarebbe arrivata per cucire, per riprendere il modello linguistico unitario adottato fino alla guerra. Il cinema col neorealismo lavorava per strappare, per mostrare il pluralismo di accenti e idee, le varietà regionali, la rabbia di proletari disoccupati, pensionati (Umberto D.), pescatori, popolane. Fu Roma a cominciare a parla’ la lingua sua, per marcare la distanza tra le classi. Non ha più smesso di farlo. Ha seguito i tempi, fino all’afasia giovanile anni 80 espressa dai cioè di Carlo Verdone.

Nella sua Storia del cinema italiano, Gian Piero Brunetta sostiene che il predominio del romanesco, “viene raggiunto quando entrano in scena nuovi soggetti: i bulletti di periferia, le prostitute, i gruppetti giovanili che contribuiscono, in maniera decisiva, a produrre vere e proprie forme di pidginizzazione”. È la lingua di Pasolini, in qualche modo pure quella ricostruita a tavolino, un’operazione colta e raffinata per il racconto delle periferie, giacché - segnalava Sordi - “il romano non parla neppure un dialetto. Parla un italiano da indolenti”. Fu un altro non romano come Gadda, a sperimentare, prima che il cinema e la televisione facessero scempio di una lingua, trasformandola in un romanoide. Matteo Rovere, regista di Romulus, dice che si è trattata di una “sfida potente e divertente. Le lingue nei film sono legate ai mondi che raccontano. L’italiano non esiste, è fatto di decine di specificità fluide. Roma si presta perché ha una storia multiculturale da 2mila anni, nella quale è compresa l’accoglienza dei reietti. Il dialetto romano di ieri sembra più bello forse perché erano più belli i film nei quali era parlato, ma se Zerocalcare deve far parlare un ragazzo di Rebibbia, non ha un altro modo”. E se non ti piace, ahò, stacce.

[uscito su Repubblica Roma del 15 ottobre 2022]

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