domenica 23 ottobre 2022

Fenomenologia del Gradasso romano

Se il vecchio Scrooge di Dickens fosse di Roma e non di Londra, sarebbe burbero, sì, ma a modo suo. Non solo arido e ruvido, anzi, sarebbe una delle tre maschere che questa città da sempre porta al cinema, sarebbe il Gradasso, compagno del Trucido e del Puro, in una strana versione del buono, brutto e cattivo partorita dall’antropologia locale. Il Gradasso ha mille e più sfumature. Non è solo una faccenda di scontrosità (tipo Fabrizio Capucci ne La voglia matta) oppure di cinismo (diciamo alla Alain Delon in L’Eclisse). Il velo che lo separa dal resto del mondo è fatto di eccessi. Di smargiassate e li mortacci tua. Il Gradasso vive di strepito e di apparenza, di esibizione e di possino ammazzàtte. Uno Scrooge di Roma è bullo e becero, vigliacco, ma in fondo fa simpatia perfino prima di cambiare vita, prima che gli appaiano i fantasmi come all’originale nel Canto di Natale inglese.

Arriva adesso un ultimo aggiornamento che porta la faccia di Marco Giallini ne Il Principe di Roma, passato in anteprima ieri alla Festa dell’Auditorium, dal 17 novembre in sala, distribuito da Lucky Red, che co-produce con Rai e Sky. È un tipo che punta a comprarsi un titolo attraverso il matrimonio con l’erede di una nobiltà spiantata, portando - lui - in dote 100 scudi. Parla la lingua nota dei mattatori di Roma. Quando all’ex amico di gioventù dice “Io so’ diventato principe e tu sei rimasto co’ ‘e pezze ar culo” fa sentire tutta l’eco del Sordi vestito da Marchese del Grillo, quello che io so’ io, eccetera eccetera. Se non fosse in abiti ottocenteschi, potrebbe passare per uno dei flâneur visti sullo schermo dentro il corpo di Vittorio Gassman, da Bruno Cortona in poi (Il Sorpasso, Dino Risi, 1962), il prototipo di un certo modo affascinante di essere laido. Edoardo Falcone, regista e sceneggiatore del Principe di Roma, dice di aver scritto il suo film pensando al mondo di Luigi Magni (“Una scelta obbligata”), un mondo popolano e popolare che ha mescolato i propri passi con il clima e l’umore della commedia dell’arte, con la radice originaria del poema cavalleresco. L’antonomasia del Gradasso viene dagli Orlando di Boiardo e Ariosto, uno innamorato e l’altro furioso. Porta quel nome uno dei capi saraceni e l’ha lasciato in eredità, come aggettivo, alla folta schiera di maschere romane, che si tratti di un Meo Patacca, oppure del suo alter ego Marco Pepe, lo spaccone, il fanfarone che promette sfracelli e scappa, un poco vigliacco, un poco canaglia, comunque plateale. Rugantino è la versione addolcita, Cacini quella sguaiata.

Così, quando Giallini viene chiamato a rivelare i suoi modelli di riferimento, non finge nel dire che Sordi lo è stato, certo, ma fino a un certo punto. “Non è che io abbia pensato a lui, nel recitare. Sordi casomai lo assimili guardandolo, anche non volendo. L’unica volta che l’ho incontrato in vita mia stava di schiena e guardava un monitor. Ha fatto quell’espressione sua di sorpresa, il sobbalzo, e mi ha detto: lascia perde, nun è roba per te. Quando si parla di romanità, Sordi è il numero uno insieme a Gassman. Ma non è stato l’unico romano del cinema. Romane sono certe espressioni e certi gesti. Voglio dire: o sei di Roma o sei di Viterbo”. Il Gradasso è stato di volta in volta il Cavaliere Nero di Gigi Proietti o il Gallo Cedrone di Verdone. È il tipo che rivendica una sorta di nobiltà di cittadinanza, anche quando è plebea, come sa bene l’Enzo di Un Sacco Bello nel dare appuntamento all’amico, al Palo della morte, a mezzogiorno, per partire verso Cracovia. Pure lui a Ferragosto, come Gassman-Cortona. Quando il bullo arriva in scena, guarda il caso, viene accompagnato dall’armonica di Morricone, uno degli strumenti suonati per Sergio Leone e il suo triello. Tutto torna. “Quelli come me, ce staranno sempre” dice il principe di Giallini alla fine. E così sia.

[uscito su Repubblica Roma il 16 ottobre 2022]

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