lunedì 29 febbraio 2016

Dove sono i maestri inglesi


E con la Coppa di Lega a Manuel Pellegrini, adesso fanno sette. Sette titoli di fila che il calcio inglese ha consegnato fra le mani di un allenatore straniero. Dopo l’addio di sir Alex Ferguson, nessun britannico è più riuscito a vincere qualcosa. Il virus era in circolo da tempo, Ferguson era un temporaneo anti-corpo negli anni in cui comunque ce la facevano uno spagnolo (Martinez e la Coppa col Wigan), un olandese (Hiddink al Chelsea), un danese (Laudrup con lo Swansea), un portoghese (Mourinho, ancora Chelsea), un francese (Wenger con l’Arsenal) e soprattutto tre italiani (col Chelsea prima Ancelotti e poi Di Matteo, Mancini col City). Accanto a Ferguson, nel passato più recente, altri due scozzesi hanno addolcito con una coppa il dominio di chi è venuto dall’estero: Dalglish a Liverpool e McLeish a Birmingham (entrambi in Coppa di Lega). Ma a parte loro un solo inglese: Redknapp, con il Portsmouth nel 2008. Una catena di nomi che fa riflettere.


Il sistema ha una carenza di maestri che ormai non riesce più a nascondere. Nemmeno ci prova. Tredici panchine su venti in Premier sono oggi in mano a tecnici stranieri. Gli inglesi sono rimasti in quattro. Altri tre hanno perso il posto durante l’anno, tutti rimpiazzati da un collega venuto dall'estero: Klopp dalla Germania, Guidolin dall'Italia, Garde dalla Francia. In Championship, la serie B, gli inglesi sono poco meno della metà, undici su ventiquattro. A ogni smacco infrasettimanale sul tavolo delle Coppe, i giornali suonano lo stesso spartito. "I manager europei battono quelli di scuola inglese per la tattica". Il punto debole è stato individuato in quell'ambito là: la strategia. La capacità di leggere la traccia e sovvertirla. L'abilità nel mischiare le carte. Per due volte negli ultimi tre anni l’Inghilterra non è riuscita a portare nemmeno un club in semifinale di Champions. Quando ce l’ha fatta, è successo grazie a Mourinho. L’ultima Coppa è stata un regalo di Di Matteo, subentrato in corsa a Villas-Boas. Quella del 2005 a Liverpool ha la firma spagnola di Benìtez. Se non fosse stato per lo scozzese Ferguson, l’ultimo allenatore britannico in una finale di Coppa dei Campioni sarebbe vecchio di trent'anni, quel Terry Venables che con il Barcellona post-Maradona e pre-Cruyff perse ai rigori dalla Steaua.

Eppure li abbiamo chiamati a lungo maestri, e maestri erano davvero. Il calcio quasi ovunque è arrivato a bordo delle navi inglesi. Il sistema WM, papà del 3-4-3, è stato inventato da Herbert Chapman. Da noi il Genoa ha dominato i campionati dei pionieri grazie a James Spensley. Herbert Kilpin fece vincere per la prima volta il Milan. William Garbutt veniva dalla cintura di Manchester e fu il primo a introdurre in Italia allenamenti professionali: tre scudetti con il Genoa fra il 1915 e il 1924. Se ancora oggi gli allenatori sono i "mister", si deve soprattutto all'influenza della sua personalità sul movimento italiano. Leslie Lievesley era il preparatore atletico arrivato dal Derbyshire a cui la Figc consegnò i muscoli della Nazionale per le Olimpiadi di Londra del '48; l'anno dopo fu tra le vittime della sciagura di Superga. E sempre un maestro inglese, si chiamava Jesse Carver, riportò la Juve allo scudetto dopo la scomparsa del Grande Torino, era il 1950, fu considerato un innovatore e il primo a introdurre la marcatura a zona in serie A.

Eravamo campioni del mondo, due volte, e loro non ancora: eppure gli anni ’50 si aprirono con Crawford sulla panchina del Bologna, Soo a Padova, Neville a Bergamo. La Roma aveva Stock, la Sampdoria Dodgin. Finirono esonerati entrambi nello stesso anno, stagione '57/58, e forse fu allora che l'Italia sentì di non avere più lezioni da prendere. In Gran Bretagna si sarebbero fatti un nome Ramsey, Shankly, Busby, Clough, Paisley. Ma noi ci stavamo dando al catenaccio, difesa e contropiede, fino a farne un marchio, un vanto, una scuola, fino a chiuderci in un felice isolazionismo tattico. Niente britannici in panchina da noi per circa quarant’anni: neppure dopo la riapertura delle frontiere, quando era la serie A la Nba del calcio. Nulla fino all'Hodgson chiamato dall'Inter nel '95, già in era pay-tv, quando i soldi dei diritti hanno rilanciato il torneo inglese. Alle soglie dei settant'anni, oggi Hodgson è il c.t. inglese. Ma guardate la lista dei manager che hanno vinto la Premier. Se non ci fosse stato Ferguson, tolta l'eccezione di Dalglish nel '95, l'ultimo britannico sarebbe Howard Wilkinson - scudetto nel '92 con il Leeds - e comunque resta l'ultimo inglese a esserci riuscito. Primo straniero: Wenger nel '98, da allora è un dominio. Se ce la facesse Ranieri con un club come il Leicester, sarebbe l'ultima conferma della supremazia della tattica. L'arte povera.

La pianta inglese si è scoperta all'improvviso sterile. Dev'essere per questo che il campionato più ricco del mondo, prima ancora di mettersi a inseguire i fuoriclasse, sta scegliendo di spendere i suoi soldi per portare a casa le menti migliori. Guardiola debutterà in Premier col City, il Chelsea ha tenuto in questi mesi sotto osservazione Conte Allegri e Simeone. Klopp c'è già. Pochettino è l'emergente. Non è mancato in trent'anni il ricambio di attaccanti in Nazionale: dopo Lineker c'è stato Shearer, e poi Owen, e dopo Rooney, e ora la generazione degli Sturridge, Welbeck, Sterling; e ancora spunta una novità all'anno, da Kane a Rashford. Forse c'è stata una cessione di sovranità, forse i tecnici migliori hanno scelto di lavorare nelle Academy e di insegnare tecnica. Il contrario di quanto si dice stia accadendo da noi.

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