martedì 26 maggio 2015

Sei chiodi storti

La breve felicità del tennis italiano sta compiendo quarant’anni. Panatta che vince prima Roma e poi Parigi in primavera; la squadra di Davis che con Barazzutti Bertolucci e Zugarelli accanto ad Adriano conquista la Coppa nel dicembre, sempre del ’76. Non era mai successo prima, né dopo più accadrà. In una stagione di angoscia e lutti, in un Paese che si è consegnato alla Dc, quella giovane nazionale con le racchette finisce dentro un corridoio di gloria e fortuna. Dario Cresto-Dina è andato a cercare uno per uno i protagonisti di quella stagione, compreso l’uomo che li guidava dalla panchina, Nicola Pietrangeli, per catturare con loro umori e atmosfera di quei giorni. Il sesto protagonista, il maestro Mario Belardinelli, non c’è più dal ’98.

Toccò, a quella squadra, giocare l’ultima partita sui campi di Santiago del Cile, da tre anni e tre mesi piegata alla dittatura di Augusto Pinochet. Il libro “Sei chiodi storti” (66thand2nd, 147 pagine, 17 euro) ricostruisce l’avvicinamento alla finale e il feroce dibattito che s’accese in Italia sull’opportunità di presentarsi in scarpette e pantaloncini candidi in un Paese insanguinato. È il racconto di un’Italia sconvolta dal terrorismo, ventuno morti - sarebbero diventati 120 quattro anni dopo - e in ginocchio sotto i provvedimenti economici del terzo governo Andreotti.


La grana della Davis scoppia mentre il Pci di Berlinguer e la Dc lavorano al patto di solidarietà nazionale. Cresto-Dina cuce le ambiguità politiche di quei giorni e la fine di Carosello, i senzatetto in aumento a Rimmel di De Gregori. Lo fa, nei suoi incontri con i campioni di allora, tenendo lo sguardo sui dettagli, sulle mani piccole e tornite di Bertolucci, sul pollice destro di Zugarelli amputato dell’ultima falange, sul numero di racchette con cui Panatta partì (otto), i giri di nastro isolante all’estremità del manico (sei) e i chili a cui erano tirate le corde in budello (ventotto). E mentre indaga dentro le relazioni precarie di una squadra spaccata, consumata in fretta in odio a un Pietrangeli descritto avido e prevaricatore, tiene basso il volume della malinconia in sottofondo, la stessa tristezza che Barazzutti confessa di provare quando oggi riascolta le canzoni di Lucio Battisti o Alan Sorrenti.

Di quella finale esiste un solo filmato di ventisei minuti. La Rai rinunciò alla trasferta e alla diretta, le immagini della tv cilena sono andate distrutte in un incendio. Il secondo giorno, dedicato al doppio, fu quello della protesta silenziosa di Panatta, che convinse il compagno Bertolucci a indossare una polo rossa, il colore della dissidenza. Giocarono tre set così, sfidando le intenzioni propagandistiche della giunta militare. “Se la stampa italiana se ne accorse e non lo scrisse è molto grave, se non lo capì è stato anche peggio”. L’inviato di Repubblica scelse di non entrare allo stadio e di raccontare dall’esterno gli orrori del Cile, il suo volto nascosto, le torture, le persone scomparse, la donna anziana che fa la calza e prepara un maglione per quando il suo vecchio tornerà. Il tennis italiano non vince più da allora. Dal ’76 a oggi si sono alternati 111 giocatori di sedici nazioni fra i Top 10 di fine anno. La Spagna ne ha avuti 14, la Svezia 11, l’Italia uno (Barazzutti), ed era il ‘78. Diciotto Paesi in questi quarant’anni hanno vinto un titolo del Grande Slam, di cui dieci per la prima volta. L’Italia no, l’Italia ancora aspetta. Il tennis diventava un carosello globale e noi ne siamo usciti. Altri tempi: Cresto-Dina ci dice che Panatta ha vinto in tutta la carriera quanto oggi guadagna un semifinalista a Wimbledon. I sei chiodi storti del titolo sono quelli che Adriano conservava come portafortuna nella sacca della borsa, li aveva a Santiago e comunque ce li ha ancora.

(il Venerdì, 26 maggio 2015)

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