venerdì 8 maggio 2015

Il viaggio e l'attesa, il fascino del ciclismo

Il poeta Alfonso Gatto, inviato per l'Unità
al Giro d'Italia nel 1947 e nel 1948
Sarà per via del fatto che una corsa in bici è pur sempre un viaggio, si va da qua a là, e un viaggio – si tratti di Enea, di Ulisse o dei tanti venuti dopo – il suo fascino ce l’ha. Sarà perché una corsa in bici si riempie soprattutto d’attesa: ce ne stiamo per delle ore e dei chilometri ad aspettare che capiti qualcosa, che il gruppo passi sotto casa, o che arrivi una montagna, che parta una fuga; e l’attesa – da Leopardi in poi – ha sempre avuto una sua grazia. Sarà per questo insomma che non esiste sport con più cantori del ciclismo. La strada è già da sola una metafora. E mentre Enzo Ferrari dall'alto dei suoi motori lo guardava al massimo come “uno sport che produce sudore”, il ciclismo per i nostri padri e per i nostri nonni stava accanto al calcio e alla boxe. Era quella la trinità della passione popolare. Valentino Mazzola, Coppi o Bartali, Joe Louis. 


La bici certe volte veniva finanche prima del pallone. In certi momenti sapeva metterne in crisi la centralità. Negli anni ’30 arrivò in Federcalcio una petizione con un bel po’ di firme affinché la squadra in testa al campionato portasse in campo la maglia gialla. Come al Tour de France. Non se ne fece niente, ma appena al Napoli capitò d’essere primo, volle giocare in amichevole con il colore che Bottecchia aveva portato anni prima a Parigi. Il Napoli del resto aveva il suo campo dentro un velodromo, spesso quando il Giro d'Italia faceva tappa in città, la corsa coincideva con la partita: si aspettava l’arrivo dei corridori e dopo si giocava.
La guerra fece della bici uno strumento di libertà. I partigiani portavano la Resistenza in giro su due ruote. Il post ’45 avrebbe trasformato la bicicletta per sempre in un mezzo del nostro tempo libero, mentre si ribaltava il segno con cui lo sport veniva letto. Se l’eroismo sportivo era stato propaganda di regime, nel dopoguerra diventava celebrazione dell’individuo, impresa personale. Gli scrittori prestati al giornalismo sportivo così poterono aumentare. Nel ciclismo più che in ogni altro campo. Per il viaggio, per l’attesa, per tutti quei motivi lì. Al Giro d’Italia arrivano Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, Dino Buzzati, Manlio Cancogni, Anna Maria Ortese, ci tornano Achille Campanile e Orio Vergani. Gianni Rodari scriverà una filastrocca per un gregario. Tagliando con l'accetta, per chi non s'intende di ciclismo: il gregario è quel corridore che fa tanta fatica al posto di un compagno di squadra, il capitano. Un tempo andava a prendergli le borracce, gli cedeva la ruota, qualche volta la bicicletta. Molto più di quello che qualunque apostolo abbia mai fatto per il Cristo, sebbene ogni tanto qualche Giuda sia spuntato. Il gregario si mette in testa al gruppo, tiene al coperto il suo capitano, prende il vento in faccia al posto suo, il vento in faccia rallenta la corsa. Il gregario gli tiene compagnia in salita, quando meglio sarebbe tenere la testa in giù, gli occhi inchiodati sull'asfalto, per non capire quanta strada ancora c'è. Al gregario, Tito Poggia ha dedicato un romanzo. Ma il dilemma vero è se l'uomo sia gregario della bici, o viceversa. 

Che la bicicletta non stia in piedi da sola e che abbia bisogno di qualcosa o di qualcuno che la sorregga: questo fa di essa una macchina commovente. (Mauro Parrini)

Di ciclismo si interesserà Giorgio Bocca e si occuperà stabilmente Gianni Brera. Mario Fossati l'ha raccontato in modo asciutto, neorealista, e sempre dalla parte di chi fatica. Il ciclismo è la cornice del mondo quando oggi ne scrive Gianni Mura. “È lo sport più popolare perché non si paga il biglietto”, diceva Pier Paolo Pasolini. O forse soltanto perché un’attesa non toglie mai davvero la speranza. E poco non è.

(versione da blog di un pezzo uscito su Repubblica Sera il 7 maggio)

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