martedì 12 maggio 2015

Lo scudetto di Elkjaer

Elkjaer rimette la scarpa dopo il gol scalzo alla Juventus
AVEVA due cognomi, qualche definizione gliel'aggiunse Brera: atleta bufalino, un incrociatore, sfondatore impetuoso. Per chi l'ha visto e per chi non c'era, va aggiunto che Preben Elkjaer Larsen arriva a Verona nell'estate del 1984 dopo aver trascinato una meravigliosa Danimarca alla semifinale degli Europei. Sarà terzo e poi secondo al Pallone d'oro.
«Avevo già 28 anni. Giocavo in Belgio, al Lokeren, da quando ne avevo 21. Tranne un secondo posto, eravamo una squadra che arrivava quarta, ottava, decima. Non è che io all'epoca sapessi molto dell'Italia, e nemmeno di Verona. Fu mia moglie a spingere. Disse: andiamo subito. Credo che tanta convinzione avesse a che fare con Giulietta e Romeo».
Eravate sposati da poco?
«Macché. Da sei anni. E sei anni di matrimonio mi parevano già tantissimi. Presi informazioni da Miki Laudrup. Giocava nella Lazio. Era certo che mi sarei trovato bene, disse che il Verona aveva buoni giocatori e che con me ci saremmo piazzati quarti o quinti».

Il primo giorno?
«Lo passai a fare le visite e a cercare casa. Ero con Briegel. Quando arrivammo al lago di Garda, mia moglie disse: ho deciso, noi viviamo qua. La casa al lago ce l'abbiamo ancora, ci vengo due o tre volte all'anno. Non ho mai accettato altre proposte da squadre italiane, ne avevo due, e non mi pare serio fare i nomi neppure dopo 30 anni, perché sentivo che avrei mancato di rispetto ai veronesi».
Cos'era lo scudetto per voi, all'inizio del campionato?
«Una parola. Una cosa lontana. Ci sentivamo forti, ma eravamo convinti che per lo scudetto servisse qualcosa di più. Avevate il campionato più bello del mondo. Io volevo accertarmi d'essere all'altezza, ma non ho mai avuto paura. Sarei stato felice anche di arrivare quarto».
In Italia si ricorda spesso che fu un campionato con il sorteggio integrale degli arbitri. Aveste 4 volte Casarin, 3 Mattei, 2 Agnolin e D'Elia: i migliori.
«Mi piace pensare che non c'entra niente. Abbiamo perso due volte in un anno. Eravamo i più forti, tutto qui. Certo, se ci sono arbitri che ti vogliono male, diventa difficile vincere. La gente cominciò a crederci presto, e noi a dire: calma, calma».
Quinta giornata. Ottobre. Verona- Juve. Lei fa gol senza scarpa. Forse quel giorno capiste.«Feci una lunga corsa verso la porta, mi accorsi subito di aver perso la scarpa. Ma volevo solo tirare e segnare. È incredibile che in Italia dopo trent'anni ancora ricordiate quel gol. In Danimarca si dimentica più facilmente. Intorno a noi c'era tanta simpatia, anche negli altri stadi d'Italia».
Lei passava per un tipo ribelle. Il whisky, le donne. Come fu l'impatto con il rigoroso Bagnoli?
«Mi chiamavano cavallo pazzo, un danese napoletano. Ma noi danesi siamo così. Gente tranquilla a cui piace scherzare. Io ero solo più danese di altri. Mia moglie non ha mai avuto motivo di essere gelosa. Capivi subito chi era Bagnoli e cosa voleva. Un duro gentiluomo, un uomo onesto che ti chiedeva di lavorare. Sapeva che intorno a una capolista gira un cerino ogni giorno. Parlava poco per non accenderlo. Ci siamo sempre capiti guardandoci».
Si diceva che le consentisse di fumare nell'intervallo.
«Ma no, non ho mai fumato. Intendo, mai nell'intervallo. Fumavo prima e dopo. Se dopo 30 anni ancora lo dicono i miei compagni, mi sa che stanno perdendo la memoria».
Al "Guerin sportivo" mesi fa Tricella ha raccontato che dovettero insegnarle come vestirsi.
«In Belgio la cosa che contava di più era fare gol. Scoprii che in Italia contava pure vestire bene. Ogni tanto mi accompagnavano a fare spese. Ma Briegel era peggio di me. Aveva sempre la stessa tuta».
E lei portava i mocassini scalzo?
«Oh, questa poi. Non è vero. Solo d'estate. I calzini d'inverno li mettevo».
Potrà vincere mai più un altro Verona?«Prima o poi succederà. È il bello del calcio. Venti anni prima di noi aveva vinto il Bologna, anche loro con un tedesco, Haller, e con un danese, Nielsen. Può darsi che sia la formula giusta…».
Intanto gli stranieri sono aumentati.
«Non dirò mai che sono troppi. Il calcio è cambiato, il mondo è cambiato. Ci si mescola, perché stupirsi? Mi dispiace solo che siano pochi i danesi. Non abbiamo tanti bravi giocatori».
30 anni dopo, Verona ha due squadre. Sorpreso?«Cosa posso fare, vuol dire che la città riesce a sostenerle. Se il Chievo ce la fa a restare in A non ho problemi, ma a me importa che ci sia l'Hellas. L'Hellas in B non deve andare mai più».
Oggi commenta calcio per una tv danese. La serie A le piace?
«Non la riconosco. I ragazzi non immaginano cosa fosse. La Juventus è la squadra più forte, ma il Napoli è la più bella. Mi piace anche la Fiorentina».
Che cosa le ha lasciato Verona?
«Mio figlio Max. Ha 28 anni. È nato a Verona. Ogni volta che lo guardo, penso a voi. Ha provato a fare il calciatore, si è rotto una gamba sciando e niente, il suo destino era un altro. In questi anni, quando capitava di avere idee differenti, mi diceva: Papà, cosa vuoi farci, io sono italiano. È stata una bella avventura. Qualche volta la sera, quando chiudo gli occhi, vedo Verona».

(la Repubblica, 11 maggio 2015)

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