mercoledì 20 maggio 2015

Berardi e il perfido mestiere della bestia nera


ANCORA poche cose non hanno una risposta certa. Uno. Come ha fatto il Real Madrid a perdere il campionato per due anni di fila all’ultima giornata sul campo del Tenerife. Due. Come fanno gli italiani a fregare sempre i tedeschi. Ma soprattutto. Perché Berardi ce l’ha tanto con il Milan. Ci sono persone che lavorano all’uncinetto, alcune collezionano francobolli, Berardi fa gol a quella maglia là. Ci passa il tempo. Magari può restare per un mese a guardarsi intorno, come del resto ha fatto da metà aprile, senza vedere la porta, se proprio va bene piazzando un paio d’assist. Ma poi arriva un giorno durante l’anno in cui si scopre crudele. Sempre lo stesso giorno. Contro quelli. Gliene fece quattro già a gennaio del 2014, aveva diciannove anni, come Piola quando ci riuscì ai suoi tempi, e al Sassuolo si affrettarono a dargli un consiglio: «Meglio se stasera non parli». Berardi domenica ne ha fatti di nuovo tre, e va bene, uno non era entrato, ma la vera differenza è che stavolta non sono riusciti a trattenerlo. Stavolta parla. «Il Milan? Vorrei giocarci sempre contro».
Essere spietati in campo è un dono, diventarlo tutt’insieme in una volta nasconde sempre un risvolto misterioso. È per questo che poi ti chiamano “bestia nera”. Ogni squadra ne ha una, come ha scoperto sabato scorso perfino la Juventus, che una volta si dannava dietro Julio Cruz detto el jardinero, dieci gol da avversario tra Feyenoord Bologna e Inter; e che nelle cinque volte in cui s’è trovata di fronte Mauro Icardi, di gol da lui ne ha presi sei. Evento che il ragazzo ha festeggiato a modo suo, cambiando manager e mandando al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto sua moglie Wanda.
A farsi travolgere da uno Shevchenko sono bravi tutti. L’arte vera sta nella minuzia, nel gusto per il particolare. Radoslaw Gilewicz, per esempio. È il nome di un attaccante polacco che dirà qualcosa ai grandi appassionati di calcio austriaco, ai tifosi del Tirol e ai fiorentini. Si incrociano quattro volte in Coppa Uefa per un paio d’anni di fila e l’onesto Gilewicz si prende la briga di segnare cinque gol. Tormento viola: «Lo abbiamo trasformato in un attaccante da Pallone d’oro». Al mercato successivo, il ds Corvino si fa prendere persino dalla tentazione di andarlo a comprare portando un po’ di milioni a Innsbruck. Si blocca un attimo prima del confine, quando realizza che pur con Gilewicz la Fiorentina non avrebbe mai affrontato la Fiorentina: a chi avrebbe fatto gol?
La “bestia nera”, col tempo, infligge dolori preventivi. Diventa una questione psicologica. Ti ha già segnato prima ancora di averlo fatto per davvero. Il suo gol finisce che te l’aspetti. Vai in campo con una certezza. Arriverà. E quello non ti delude, come sanno bene alla Roma, dove ogni incrocio con Daniele Conti viene vissuto come il ritorno dal passato di Alarico. Del resto la “bestia nera”, calco linguistico della bête-noire alla francese, tiene insieme le due paure primitive dell’uomo. La fiera e il buio. Non c’è nulla di più terribile. Il resto lo fa la connotazione sessuale nascosta fra le pieghe.
Fosse ancora vivo Freud, collegherebbe l’accanimento di Berardi sul Milan a quella volta in cui non rispose a una chiamata dell’Under 19, sparì senza giustificarsi e Arrigo Sacchi da supervisore delle nazionali fece scattare il codice etico, con nove mesi di esclusione dall’azzurro compresi nel pacchetto. La Juve, che è proprietaria del suo cartellino e che sta mettendo in conto di riscattarlo, gli deve almeno un pezzettino di questo quarto scudetto di fila. Se non avesse Berardi segnato i primi quattro gol, il Milan quella settimana non avrebbe esonerato Allegri, forse Max sarebbe ancora lì, e in un universo parallelo starebbe vincendo lo scudetto per Berlusconi. Magari pure con Tevez.

(la Repubblica, 19 maggio 2015)

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