sabato 1 novembre 2014

Eduardo De Filippo e l'Inghilterra / 2 - Tradurre il teatro

Metto qui, il secondo capitolo di uno studio che feci nel 1993 sulla traduzione in inglese dei lavori di Eduardo De Filippo: le scelte linguistiche, i motivi del successo. Sperando che possa essere utile a qualche studente.
  

2.     Tradurre il teatro
                                                          "La traduzione teatrale non è un'operazione
                                                           linguistica: è un'attività drammaturgica"
                                                           (E. Cary)


     Tutti i più grandi teorici della traduzione concordano su un punto: il testo teatrale merita considerazioni a parte. Non consente che gli siano applicate generalizzazioni, tanto sono fragili i suoi equilibri. "L'atmosfera di un testo teatrale si compone di imponderabili e bastano pochi particolari qua e là mal riusciti perché il testo non renda il suo giusto timbro"1. Lo scrive Georges Mounin, professore di linguistica e stilistica francese alla Facoltà di Lettere di Aix-en-Provence. "La traduzione teatrale può mostrare quale sia, per una versione integralmente fedele, l'importanza di quei complessi elementi che abbiamo chiamati i diversi contesti di un enunciato. Infatti, l'enunciato teatrale è concepito proprio in vista di quei contesti, perché è sempre scritto in funzione di un dato pubblico, che in sé riassume quei contesti e conosce quali situazioni essi esprimano, quasi sempre per allusione: contesto letterario (la tradizione teatrale del Paese nel quale l'opera teatrale viene scritta), contesto sociale, morale, culturale in senso largo, geografico, storico - contesto dell'intera civiltà presente in ogni punto del testo, sulla scena e in platea"2.


     Non è sempre semplice, dunque, accostare due testi completamente diversi, ancor più se si tratta di testi teatrali, ricchi di elementi disomogenei. Per questo motivo, probabilmente, il teatro è rimasto a lungo il genere letterario meno adatto all'esportazione. "Quando un teatro del passato - scrive ancora Mounin - diventa internazionale, come quello della commedia dell'arte o, più tardi, il teatro classico francese, ciò avviene perché la cultura  di cui è l'espressione è già internazionalizzata: in conseguenza delle guerre d'Italia o tramite l'egemonia europea dell'età di Luigi XIV. Si può anche supporre che il teatro sia diventato un valore culturale internazionale (e non ancora di massa) solo nel secolo nostro, grazie all'integrazione culturale resa possibile dal moltiplicarsi di rapide comunicazioni; e pur sempre, all'inizio, con grande lentezza. Dopo la prima guerra mondiale, un decimo degli spettacoli teatrali messi in scena a Parigi erano traduzioni; oggi siamo ad un quarto del totale"3.

     Lo stesso termine "traduzione" non è sempre proprio, quando si parla di teatro. "Tradurre un'opera teatrale - spiega Mounin - ha voluto dire e vuol dire ancora oggi vincere tutte le resistenze sorde, inconfessate, che una cultura oppone alla penetrazione di un'altra cultura dal momento in cui non si tratta più di una comunicazione puramente intellettuale. E per di più la traduzione teatrale è quasi senza appello, il testo resiste o non resiste alla recitazione (...).  Di qui si capisce perché la traduzione teatrale, quando non è scritta per un'edizione scolastica, universitaria o critica, bensì per la recitazione, debba trattare il testo in modo da poter essere considerata tanto un adattamento quanto una traduzione"4.
      
    L'adattamento viene spesso indicato quale soluzione migliore per l'esportazione di un testo teatrale. "Prima della fedeltà al vocabolario, alla grammatica, alla sintassi e persino allo stile di ogni singola frase del testo, deve venire la fedeltà a quel che, nel Paese d'origine, ha fatto di quell'opera un successo teatrale. Bisogna tradurre il valore teatrale prima di preoccuparsi di rendere i valori letterari o poetici, e se fra quelli e questi si crea un conflitto, bisognerà scegliere il primo contro i secondi. Come diceva Merimèe, bisogna non già tradurre il testo (scritto) ma l'opera (recitata)"5.
   Così, il curatore di una traduzione teatrale solitamente fa ricorso a procedimenti che siano poco fedeli all'originale, "perché non deve soltanto tradurre enunciati bensì anche contesti e situazioni, in modo che sia possibile comprenderli tanto immediatamente da poterne ridere o piangere"6. Si tratta, per lo più, di quei procedimenti che Vinay e Darbelnet, nella loro Stylistique comparée du francais et de l'anglais classificano come trasposizione o equivalenza. Con qualche semplificazione, si potrebbe sostenere che la trasposizione consiste nel sostituire una parte del discorso con un'altra, senza però alterare il senso del messaggio (l'esempio classico è: "After he comes back" = "Al suo ritorno").

     Nell'equivalenza, invece, la libertà del traduttore è ancora più ampia. Il messaggio, infatti, è tradotto con un enunciato completamente diverso, ma di senso uguale (esempio: "Comme un chien dans un jeu de quilles" = "Come un elefante fra le porcellane"). Sempre che sia effettivamente possibile ottenere in linguistica due enunciati sovrapponibili alla perfezione: situazione, questa, dimostrabile con gigantesche difficoltà. Fra i criteri dei due studiosi francesi, il caso limite è costituito appunto dall'adattamento, con cui si cerca di riprodurre una situazione intraducibile con un'altra più o meno simile. Un paragone americano tratto dal linguaggio del baseball, lo sport nazionale negli Usa, dovrebbe così essere reso con un paragone italiano suggerito dal calcio.

     Vedremo che, in qualche caso, le traduzioni delle commedie di Eduardo soffrono proprio del mancato rispetto di queste regole. "Per tradurre un testo scritto in una lingua straniera, bisogna dunque rispettare due condizioni, e non una soltanto; due condizioni necessarie, nessuna delle quali è sufficiente di per sé stessa: conoscere la lingua, e conoscere la civiltà di cui parla questa lingua (e ciò significa la vita, la cultura, l'etnografia più completa del popolo di cui questa lingua è il mezzo d'espressione)"7. Non sempre i traduttori di Eduardo hanno seguito i suggerimenti dettati dalla teoria. Talvolta, il curatore della versione inglese è rimasto ingannato da errori d'interpretazione. Interpretazione che "rappresenta una sfida per il traduttore. Soprattutto quando deve affrontare testimonianze di un'epoca remota o di una cultura lontana geograficamente, egli deve sondare stratificazioni di sviluppo semantico: le parole in quanto spiriti, miti, persone, oggetti, oggetti e simboli, metafore, idiomi; i concetti astratti poi possono essere personificati o reificati. Solo una profonda conoscenza etnologica e linguistica può aiutarlo a dare il "taglio" adeguato e può essere continuamente necessario ridefinire molti termini-chiave generali come il latino virtus o il francese gentilhomme"8. Un ostacolo imponente, insomma. Del resto, ogni traduzione comporta una certa perdita di significato per una serie di circostanze. Il tedesco Haas sostiene che quando il testo descrive una situazione che presenta elementi tipici dell'ambiente naturale, delle istituzioni e della cultura della sua area linguistica, questa perdita di significato è addirittura inevitabile. Inoltre, due lingue, sia nelle loro caratteristiche generali che nelle loro varietà sociali hanno sistemi diversi ed interpretano in maniera diversa soprattutto i concetti intellettuali.

     Infine, bisogna considerare che l'uso individuale della lingua del traduttore e quello dell'autore, ovviamente, non coincidono. Secondo quanto sostiene Wilhelm von Humboldt, sarebbe da escludere la possibilità di ottenere adattamenti o versioni pienamente convincenti, in quanto la lingua frappone tra lo sguardo dell'uomo e l'oggetto osservato un prisma deformante. un prisma che varia da lingua a lingua. E quest'ultima, poi, si presenterebbe come lo strumento attraverso il quale l'uomo crea sin dall'infanzia il suo modo di guardare. "La visione del mondo di ogni uomo è dunque in certo qual modo predeterminata dalla sua lingua: così una lingua in cui l'uomo che lavora la terra, l'uomo stupido, l'uomo senza religione e l'uomo di abitudini animalesche, sono confusi in un medesimo termine, spinge fin dalla più tenera infanzia a disprezzare il lavoro dei campi"9.

     Le difficoltà nella comunicazione fra esponenti di culture o civiltà diverse, secondo gli etnografi, non sono affatto un aspetto marginale. Anzi, finiscono per costituire addirittura una barriera per la comunicazione completa. "E' estremamente difficile raggiungere l'effettiva comunicazione, anche quando ci si trova in una situazione di lingua unica e di unica cultura. E' quindi evidente che quando si passa ad una situazione bilingue e pluriculturale i problemi diventano ancor più complessi (...). Il grado di traducibilità di una qualunque enunciazione in una data lingua è in rapporto diretto con la somiglianza fra le due culture in questione; (...) più grande è la distanza culturale, maggiore diventa l'intraducibilità di una data enunciazione"10.

      Uno dei motivi, quest'ultimo, che spinge molti a preferire la versione alla traduzione pura, perchè "più letterale, più aderente alle strutture proprie della lingua d'origine, e più asservita, per quanto riguarda i mezzi, ai principi della costruzione analitica; mentre la traduzione bada maggiormente al significato essenziale dei pensieri espressi, più attenta a renderli nella forma che loro conviene secondo la nuova lingua, e quindi, nelle sue espressioni, più sottoposta ai modi di dire e agli idiotismi di tale lingua" 11.
      Tutte le esperienze e gli studi del passato convergono in quella che viene definita la traduzione moderna. "Essa cerca di rispettare - quando è possibile - la lingua straniera in ogni parola, in ogni sua costruzione e in tutti i suoi modi stilistici. Ma si preoccupa anche di non violare mai la lingua nella quale traspone l'originale rispettando così contemporaneamente lo spirito della lingua originale e quello della lingua in cui si traduce; tutto questo, conservandosi sempre strettamente fedele al senso del testo, senza aggiungere nè togliere nè mutare nulla"12.
      Quando, dunque, i primi traduttori di Eduardo si trovarono di fronte al loro ambizioso progetto, furono in qualche modo costretti a scegliere - magari inconsapevolmente - una posizione "ideologica", per poi partire da quella ed adottare gli strumenti che essa suggeriva. Una difficoltà ulteriore, per i traduttori inglesi: i testi di De Filippo sono scritti in dialetto e non in una lingua nazionale. In Italia, fra la conquista romana del IV e III secolo a.C. e l'unificazione politica del 1861, non hanno agito forze centripete, capaci di salvaguardare l'omogeneità linguistica. Una forza, viceversa, presente in Inghilterra, dove la provincia è stata indotta ad orientarsi, anche linguisticamente, secondo il modello della capitale.
      Se poi consideriamo che nella cultura dei Paesi di lingua inglese, ed in Inghilterra più che altrove, oggi il dialetto viene quasi esclusivamente adoperato dalle classi più umili e non ha grosse tradizioni letterarie, ecco che la traduzione delle opere eduardiane poteva trasformarsi in un colossale pasticcio.
      In Inghilterra esiste una certa tollerenza verso i dialetti rurali, mentre quelli urbani sono disprezzati dal parlante comune, non addirittura forme corrotte della lingua. Al contrario, in alcune regioni italiane, l'alta borghesia e l'aristocrazia usano spesso il dialetto, o diciamo forme dialettali mescolate con un italiano dall'accento regionale, una cosa che non avviene quasi mai in Inghilterra, dove vi è una stretta correlazione tra uso del dialetto e classe sociale"13. Come agire, allora? Prendendo in considerazione un'opera artistica con un forte sapore locale, Newmark suggerisce: "Il traduttore non si comporterà come l'autore nei confronti del lettore originale, per il quale l'argomento era o è scontato, ma lo proporrà al suo lettore come qualcosa di nuovo, dotato di un suo interesse intrinseco (...). Ma se la cultura è altrettanto importante quanto il messaggio (al traduttore spetta la decisione), egli riprodurrà la forma e il contenuto dell'originale il più letteralmente possibile (persino con alcune traslitterazioni) senza preoccuparsi dell'effetto equivalente"14.
      Vediamo, adesso, un caso di traduzione da una varietà inglese all'italiano. L'esempio più pertinente arriva da Pigmalione, la commedia di George Bernard Shaw la cui protagonista, Eliza Doolittle, una fioraia ambulante, parla prima una sorta di cockney, e successivamente viene istruita ad una pronuncia degna di una gran dama. Francesco Saba Sardi, il traduttore dell'edizione italiana curata dalla collana Oscar della casa editrice Mondadori, spiega così la sua scelta: "Ho risolto il problema ricorrendo a un "orribile" impasto linguistico: un misto di dialetti padani, tra l'altro, in quanto di matrice latino-celtica, i più vicini alle sonorità astruse e pregnanti del cockney, nel quale convergono elementi anglosassoni accanto alle influenze più disparate, "coloniali" e preanglofone. La lingua ufficiale è certo più comunicante, più universale, più colta, più scolastica, meno idiosincrasica; il dialetto comunica meno, ma sottintende di più. La prima è più rigida, più aderente ai principi della istruzione scolastica per tutti e, nel caso specifico, più vittoriana, più imbustata; il dialetto risulta più impreciso, sfuggente, spesso più ricco per lo meno di suoni "inammissibili" come del resto lo sono, tanto spesso, i comportamenti del "popolo"15.

     La sua posizione, sarà bene precisarlo, è quella di un traduttore. Con le sue affermazioni, ben pochi linguisti sarebbero d'accordo. Quello che Saba Sardi chiama "impasto", poi, non è stato nemmeno preso in considerazione come possibile soluzione per le versioni inglesi delle commedie eduardiane. Vedremo, però, come Keith Waterhouse e Willis Hall, i due drammaturghi che s'erano occupati con successo della traduzione di Sabato, domenica e lunedìignoreranno per Filumena Marturano qualsiasi adesione all'essenza popolare del personaggio, Nel senso che, con la loro traduzione, cancelleranno da esso ogni traccia di appartenenza a quel preciso ceto sociale che è il sottoproletariato napoletano. Malgrado avessero a loro disposizione i dialetti urbani londinesi, una scelta che si sarebbe potuta rivelare assai valida, se è vero che "nelle moderne società, e in modo particolare in quelle anglofone, vi è una correlazione precisa tra l'uso di un dialetto e la collocazione nella scala sociale del parlante"16.

     Furono fatte, spesso, scelte criticabili. Eppure, nonostante qualche traduzione infelice, le commedie di De Filippo hanno sempre avuto ottime critiche e gran successo di pubblico. Lo stesso che ha portato l'Accademia nazionale dei Lincei a scrivere: "I testi di Eduardo vivono al di là dell'efficace interpretazione data dal loro autore. Se così non fosse, non si riuscirebbe a spiegare il successo che essi hanno riscosso fuori dalla loro terra d'origine, tradotti e recitati in lingue diverse"17.

     La forza del teatro di De Filippo risiederebbe, secondo Elio Nissim, nei suoi personaggi, anche quando sono stati mortificati da versioni poco credibili. "Non sono nè eroi nè pagliacci nel senso basso e vile di questa parola. Sono uomini - spesso in parte eroi e in parte pagliacci - e ciascuno di loro ha le caratteristiche della propria personalità, della propria natura e della terra in cui è nato o in cui vive. Perchè, come in un albero, in ogni essere umano le radici hanno una grande importanza. Questo può spiegare perchè il teatro di Eduardo, se tradotto in inglese con la dovuta comprensione, non perde del suo valore e non crea problemi d'interpretazione, mentre spesso, molti dei lavori del teatro inglese di oggi se tradotti in italiano, anche con le migliori intenzioni non riescono a comunicare al pubblico italiano la profondità e le sottigliezze del testo inglese e si prestano a essere fraintesi. Questo può sembrare quasi un paradosso data la squisita assenza di sapore nazionale e regionale delle commedie di Eduardo De Filippo"18.

    Il feeling intenso e particolare esistito tra Eduardo e l'Inghilterra è confermato dalle parole del figlio Luca, che precisa: "Il rapporto delle sue commedie con la Francia, insomma, è stato spesso conflittuale. Ben diverso da quello con l'Inghilterra"19. Infatti, come spiega Bernard Dort, critico e storico di teatro, agli occhi del pubblico francese "la mitologia di una Napoli allegra e sempre in festa aveva la meglio sul fondo amaro e drammatico del teatro di Eduardo"20. Quel fondo amaro, invece, l'Inghilterra non l'ha mai ignorato. E non l'ha mai tradito, nelle sue versioni. "E' molto più facile - spiega inoltre Luca De Filippo - tradurre Eduardo in una lingua straniera che in italiano. Perché l'italiano è una lingua che, rispetto al napoletano, non ha un rapporto così stretto col teatro, in quanto è una lingua non parlata... In Italia non si parla quasi da nessuna parte l'italiano: si parla un italiano "dialettizzato". E' il teatro che deve essere molto rapido, veloce nel dare... una commedia dura due ore e mezzo, ha da dire delle cose, quindi bisogna essere precisi: tà tà, colpire immediatamente il segno. E con l'italiano non è facile..."21Un'opinione che, probabilmente, non molti linguisti sottoscriverebbero al giorno d'oggi. Ma questa stessa tesi, fino a un secolo fa, aveva illustri sostenitori. "Carlo Gozzi e Ugo Foscolo erano spinti a definire l'italiano "una lingua morta", il Manzoni a ripetere l'espressione e a negare che gli scrittori italiani disponessero d'una lingua "viva e vera", il Leopardi a rilevare l'aridità dell'italiano"22.

     In qualche modo, deve averlo pensato lo stesso Eduardo, quando gli fu proposto di tradurre La Tempesta di Shakespeare. Scelse il dialetto napoletano. Offrendo nella postfazione il proprio punto di vista sulla questione delle traduzioni. In qualche modo, anche un piccolo indizio su quale tipo di versione avrebbe gradito per le sue commedie. "Ho cercato di essere il più possibile fedele al testo, come, a mio parere, si dovrebbe essere nel tradurre, ma non sempre ci sono riuscito. Talvolta, specie nelle scene comiche, l'attore in me si ribellava a giochi di parole ormai privi di significato, e allora li ho cambiati; altre volte ho sentito il bisogno di aggiungere alcuni versi per spiegare meglio a me stesso e al pubblico qualche concetto"23. Ed ancora: "Devo aggiungere - continua Eduardo - che in un certo senso ho tradotto direttamente dall'inglese, perché mia moglie Isabella mi ha trasportato in italiano letteralmente tutta la commedia, atto per atto, scena per scena, cercando poi in certi suoi libri inglesi il significato doppio e a volte triplo di certe parole arcaiche che non mi persuadevano"24.


NOTE

1    Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione, trad. it. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1965, pag. 158
2    Georges Mounin, op. cit., pag. 153
3    Georges Mounin, op. cit., pag. 154
4    Georges Mounin, op. cit., pag. 155
5    Georges Mounin, op. cit., pag. 155
6    Georges Mounin, op. cit., pag. 155
7    Georges Mounin, op. cit., pag. 122
8    Peter Newmark, La traduzione, problemi e metodi, Garzanti 1988, pag. 72
9    Georges Mounin, op. cit., pag. 8810    Leon Dostert, atti dal convegno di interpreti che lavorarono ai processi di Norimberga
11    Georges Mounin, op. cit., pag. 20
12    Georges Mounin, op. cit., pag. 23
13    Thomas Frank, Introduzione allo studio della lingua inglese, Il Mulino, Bologna 1989, pag. 239
14    Peter Newmark, op. cit., pagg. 31-32
15    G.B. Shaw, op. cit., pagg. 16-17
16    Thomas Frank, op. cit., pag. 237
17    Accademia nazionale dei Lincei, Estratto delle adunanze straordinarie per il conferimento dei premi "Antonio
        Feltrinelli", seduta del 18 dicembre 1972, vol. I, fascicolo 10
18    Elio Nissim, art. cit. in op. cit., pagg. 32-33
19    Luigi Vaccari, L'italiano è un rischio in più, , 13 ottobre 1989, pag. 24
20    Maria Grazia Tajè, Solo ora sconfitto un antico pregiudizio, , 13 ottobre 1989, pag. 24
21    Luigi Vaccari, art. cit.
22    Tullio De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Manuali Laterza, Bari 1991 (prima ed. 1963), pag. 31
23    Eduardo De Filippo, La tempesta, trad. da William Shakespeare, Einaudi, Torino 1984, pag. 186

24    Eduardo De Filippo, op. cit., pag. 187


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