giovedì 13 novembre 2014

Il primo amore di Vittorio De Sica


Per i registi stranieri, era “il napoletano”. Anche se nato in Ciociaria. André Bazin, il fondatore dei Cahiers du cinéma, di Vittorio De Sica diceva che vivesse in “inesorabile amicizia per i suoi personaggi”. La trovo una frase bellissima, testimonia la grande umanità con cui De Sica guardava il mondo, la partecipazione per le vicende osservate e raccontate, una profondità leggera che certamente adesso si spaccerebbe per buonismo. Quando morì, sono 40 anni, l’Unità scrisse che “la sua delicata cortesia napoletana diviene grazie al cinema il più grande messaggio d’amore che i nostri tempi abbiano avuto la fortuna di ascoltare dopo Chaplin”.
Poco prima di morire, De Sica si confessò al registratore di Aurelio Andreoli, cronista letterario. La conversazione fu pubblicata da “Il Mondo” nel 1976. Questa è la parte in cui De Sica racconta della sua infanzia a Napoli, trascorsa in una casa all’Arenaccia.



“Ho più di settant’anni. Sono nato nella miseria: ho raggiunto l’agiatezza. Sono passato attraverso due guerre mondiali, rivolte sociali, crisi, dittature. Mi ritrovo in un’Italia più sfasciata di prima. Incontro uomini induriti, delusi. La società nazionale è lacerata da fazioni, rancori. Non mi preoccupo più di me. Rinuncio a capire. Guardo il passato con tenerezza, ma anche con furore. Non c’è eredità morale per i nostri figli.

Napoli, dicembre 1907: la grande cucina della nostra casa in Via dei Martiri d’Otranto, un rione popolare. Mi rivedo in una vecchia foto annebbiata seduto con i miei fratelli su una panchetta, mentre guardo il fuoco morire. Credo che anche le case vivono e muoiono come persone. Da piccolo avrei voluto studiare musica per diventare poi compositore come ora mio figlio Manuel, ma il mio pianino andava e veniva, portato via dai creditori con i quali la mia famiglia aveva dei debiti.

Mamma era romana, papà napoletano. Papà che era un modesto agente assicuratore, dopo la mia nascita fu trasferito a Napoli, dove ho trascorso l’infanzia. Abitavamo vicino al carcere. Temevo il silenzio di certe sere, rotto solo dal “cantafigliola”; un canto che i parenti dei detenuti, presso il carcere di San Francesco, alzavano per comunicare coi reclusi.  Un canto triste, che aumentava di minuto in minuto, e che si placava solo con l’arrivo dei congiunti di altri reclusi. Come in una nenia dicevano: “mamma dice che ti devi cercare un lavoro, l’avvocato ti farà ridurre la pena. Ninetta pensa sempre a te”.

Ricordo il mio primo amore. Avevo sei anni, uscivo col grembiule a scacchi bianchi e blu. Al balcone di fronte casa nostra, c’era Olga. Era bella, aveva spirito, e cantava canzonette amorose. Si schiariva i capelli con l’acqua ossigenata, e poi se li asciugava al sole. Mi parlava con voce bassa, poggiata alla ringhiera. “Ah Vittò”, diceva, “che ti si' magnato oggi?”, le spiegavo che in casa nostra i maccheroni erano un piatto di lusso; mia madre li cuoceva in una caldaia, e quando erano arrivati al grado di cottura, li pigliava e li poggiava sopra una banchetta di legno, in modo da tenerli esposti al vapore dell’ebollizione; e mentre si asciugavano girava col mestolo la salsa, aggiungeva foglie di basilico pesto.

Olga pigliava baci anche a forza dai giovani popolani. Aveva fama di attività e gran commercio, con un crocchio di napoletani. Olga mi chiamava dal balcone e diceva: “Vittò, statti senza paura”. Ma ero puntualmente agguantato per il colletto da mia nonna, che urlava: “Mo’ ci mettiamo in confidenza anche con le puttane?”. In fondo è per me stesso che faccio questo racconto, e ripeto la storia che mi accadde da bambino. Napoli agli inizi del secolo: vita gioconda, vita spensierata, disgrazie, eruzioni, processioni, epidemie. Nel 1911 ci fu una epidemia di colera. Oggi si dà la colpa ai frutti di mare. A quei tempi le autorità avevano proibito di mangiare i fichi. Mia madre se ne rideva, e continuava a scendere nei bassi per procurare cassette di fichi a tutti noi. restava di vedetta nel vicolo, per poter dare l’allarme. Una volta arrivarono due carabinieri, ed io iniziai a cantare “torna a Surriento”, mentre alle mie spalle le ceste venivano fatte sparire. I carabinieri mi dissero: “Bravo guaglio’ continua” mentre il tramestio nel basso non accennava a finire. Per prendere tempo cantai tutto il repertorio napoletano. Svegliarsi ad oltre settant’anni e aver voglia di vivere, al momento di morire”.


UN PAIO DI VECCHIE COSE SU VITTORIO DE SICA:
Ingrao, De Sica e il miracolo a Milano
Tania, Juliana e Loana

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