giovedì 1 dicembre 2011

Ginulfi, l'italiano che ha parato un rigore a Pelé

Il rigore parato
da Ginulfi a Pelé
Rigore. Lo tira Pelé. «Parte e mi fa una finta. Sposta il corpo verso sinistra perché voleva mandarmi a destra, io mi lancio dall'altra parte e gliela prendo. Con la mano aperta». Alberto Ginulfi ha venduto pesce al mercato dai dodici ai vent'anni. All'alba, dietro il bancone della zia. Una volta raccontò a Sandro Ciotti che la mattina, assonnato, sbagliava a dare il resto. Ma la sera che parò un rigore a Pelé, gli occhi li teneva aperti eccome. L'unico italiano a esserci riuscito. «Noi eravamo una Rometta, loro il grande Santos. Un po' come se ora ci fosse Catania-Barcellona». Oggi Ginulfi compie settant'anni, e di certo sono meno le volte in cui ha raccontato la parata più famosa della vita sua. Persino adesso, davanti al camino spento nella casa di Castel Gandolfo, parla di quel 3 marzo del '72 senza vanità, quasi con impaccio.



«L'Olimpico ai miei tempi era sempre pieno, non aveva i sedili, di persone ce ne facevi entrare novantamila». Come quella sera lì. Sessantamila con il biglietto, trentamila senza. E premono ai cancelli, cinquanta restano feriti, il vice questore Mirabile ordina al presidente Anzalone di farli entrare tutti oppure succede un massacro. «Noi eravamo di sotto, c'era un rumore pazzesco sulle nostre teste, iniziammo con mezz'ora di ritardo». Un venerdì. Lelio Luttazzi urla alla radio che al numero uno di Hit Parade c'è Nicola Di Bari, "Chitarra suona più piano" è davanti a "Imagine" di John Lennon. Ci sta che in un giorno così Ginulfi pari un rigore a Pelé. «Fu gentile, venne ad abbracciarmi». O Rei lo accarezza, bravo, gli dice che è il terzo al mondo a farcela.

Ginulfi con la maglia di Pelé
«A fine partita volle regalarmi la maglia: chissà quanti soldi ci faccio se la vendo». Non la vende. La 10 bianco Santos è dentro una busta di plastica, in una cassettiera, su in mansarda. Cotone puro, profuma di grandezza. «Pelé lo conoscevo già. Cinque anni prima c'era stata un'altra amichevole al Flaminio, d'estate il Santos girava mezzo mondo». Pelé riempiva le tasche di gol, fino a metterne insieme 1.281. «Al Flaminio quella volta avevo fatto il fenomeno, tanto che il giorno dopo mi invitarono a un ricevimento all'ambasciata brasiliana. Mi fecero chiedere da Sannella, il manager che aveva portato Jair all'Inter, se volessi trasferirmi a San Paolo. Neppure ci credevano che alla Roma non ero titolare». Riserva di Cudicini prima, di Pizzaballa poi. «Se non fosse arrivato Herrera, sarei rimasto per sempre un numero 12». Invece con H.H. il ragazzo di San Lorenzo diventa titolare. «Pensai a mio padre. Da bambino mi portava a vedere la Roma, prendevamo la circolare, i soldi per andare allo stadio uscivano sempre, magari si rinunciava ad altro. Non ha fatto in tempo a vedermi in porta, il primo infarto gli venne durante un Roma-Inter».

La figurina Panini
del 1971/72
Il portierone, Ginulfi lo chiamano così. Ma quando le partite in serie A diventano 99, un mercoledì lo fermano. «Mi parlano di un' anomalia cardiaca». Un controllo per una pallonata presa in petto, la nazionale B lo aveva appena chiamato, da allora il portierone diventa Cuore Matto. «Il giro dei migliori medici. A Roma. A Pisa. A Manchester. Stavo bene per tutti, ma nessuno firmava il via libera». Era da poco scomparso Giuliano Taccola, il miglior amico di Alberto, morto a 25 anni per un malore negli spogliatoi a Cagliari. Tre mesi così, fermo, con quella paura addosso. E dopo? «Pure per uno Scapoli-Ammogliati ti devi preparare, invece mi ributtarono subito in campo, le gambe non reggevano. Avevo perso il treno, certe volte penso che bisognerebbe vivere due volte». Ciao Roma, il finale è tra Verona (una finale di Coppa Italia) e Fiorentina. «Giocavo solo in Mitropa Cup. Una volta faccio un miracolo dietro l'altro, scende un dirigente nello spogliatoio e dice: ma che bravo stasera Mattolini».

Era tornato una riserva, e una riserva a chi la racconta la storia di Pelé? «Non ne ho parlato più, ora che ci penso credo di non averlo mai raccontato neanche a Maradona». Eppure ha speso tre anni accanto a Diego. Il Ginulfi fine anni '80 è nello staff del Napoli, allenatore dei portieri e osservatore per conto di Bianchi prima, di Bigon poi. «Quanto mi voleva bene, Diego». È una 10 dell' Argentina, l' altra maglia nel cassetto di casa. «Una domenica Maradona mi saluta: ci vediamo domani al campo. Io gli dico: 'a Die' , prima di venerdì nun te vedo. E lui fa: da domani vengo tutti i giorni. Poi ho capito. Si preparava ai mondiali». Ha visto i più grandi. E però. «Il ricordo più caro è lo scudetto juniores vinto a diciott'anni con la Roma. Uno squadrone. Ogni tanto ancora ci sentiamo, ci vediamo, De Sisti è un mezzo parente, ho sposato sua cugina. Ecco, avrò pure parato un rigore a Pelé, ma voi non sapete che fantastica mezz'ala era Pietrantoni».

(la Repubblica, 30 novembre 2011)

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