venerdì 2 aprile 2010

Bonetti e la lettera della madre

Mia madre, voi non avete idea. Non le bastava accompagnarmi al campo, quando ero bambino. Volle fare di più. Stabilì che sarei dovuto diventare il portiere del Chelsea. Numero uno: Peter Bonetti. In fondo l'ha deciso lei. Dear sir Drake, egregio signor Ted, le scrivo per chiederle di fare tutto il possibile affinché il club di cui lei è manager, il Chelsea, possa offrire un provino a mio figlio Peter Phillip. Il mio ragazzo ha 19 anni, gioca nel Reading e dicono sia bravino. Firmato: la signora Bonetti.


I miei avevano origini svizzere. Canton Ticino. Io sono nato a Londra prima che tutta la famiglia si trasferisse a Worthing, nel Sussex. Quando mia madre scrisse questa lettera, volevo sprofondare dalla vergogna. Certo, dopo l'ho ringraziata. I miei avevano un caffé di fronte al Worthing Dome, avete presente? Che ne sapevano di calcio. A lei dicevano che ci sapevo fare e lei si buttò. Fortuna che Drake le diede retta, mi chiamarono al provino e mi presero. Ho giocato più di 700 partite in 20 anni con il Chelsea, all'inizio eravamo tutti giovani, con me c'erano Venables e Tambling. Siamo risaliti in prima divisione, abbiamo vinto la Fa Cup del '70 e siamo stati l'ultimo Chelsea a vincere qualcosa prima che arrivassero gli italiani. Vialli, e Zola, e Di Matteo. Mi chiamavano The Cat of Stamford Bridge, il gatto, sì lo so, niente di originale, i soliti soprannomi che si danno ai portieri, sempre tutti uguali, ma io davvero avevo stile, e grandi riflessi. Ero l'unico in tutta l'Inghilterra a saper lanciare la palla con un solo braccio oltre la metà campo. Gli altri lo facevano con i piedi. Be', forse l'unico no. Sapeva lanciarla pure Gordon West, dell'Everton. Ma la mia viaggiava più veloce e arrivava più lontano. Era l'epoca in cui i calciatori cominciavano a cambiare spesso squadra, avrei potuto guadagnare molto di più se anch'io avessi accettato di salire sulla giostra. Ci vuole un carattere di un certo tipo per mettersi a trattare, per strappare più soldi, un ingaggio migliore. Io non l'avevo. Quando nel '79 ho chiuso, me ne sono andato in Scozia. A fare il postino nell'isola di Mull. Lì mi pregarono di giocare ancora qualche partita con il Dundee, un'emergenza, bisognava rimpiazzare McAlpine, un portiere che faceva scalpore perché tirava i rigori. Ma se oggi, 10 giugno 2009 sono qui, a Downing Street numero 10, il Chelsea non c'entra. Sono qui per la nazionale. Ho partecipato a due Mondiali, ma ho giocato una partita sola. Ed è una partita da dimenticare.


Mondiali del Messico. 1970. Quarti di finale. Il 1970 era stato il mio anno d'oro. Terzo posto in campionato dietro Everton e Leeds, il riconoscimento di miglior giocatore di tutti i tempi del Chelsea e la finale di Fa Cup vinta. Due partite durissime contro il Leeds, tra le più violente che io abbia mai visto. E poi i Mondiali. Quella partita. La mia Inghilterra contro la Germania Ovest. Succede che Gordon Banks, il grande Banks di cui ero riserva, aveva bevuto una birra fredda la sera prima, era stato male. Una leggerezza non da lui. La notte in bianco gli tolse ogni energia. Non si reggeva in piedi. Eravamo campioni del mondo in carica e stavolta toccava a me. Era la stessa partita della finale di quattro anni prima. Ma tutto più semplice. Almeno all'inizio, almeno così sembrava. Gol di Mullery e gol di Peters, due a zero per noi al 50'. Ancora oggi, a distanza di anni, non so com'è che finimmo per perdere. Un problema mio. Gli altri lo sanno, lo sanno bene. Hanno più certezze di me. Dicono tutti che fu colpa mia.


Okay, parliamone. Il primo gol che presi venne da un tiro da fuori area. Beckenbauer. Ma nessuno dice che Mullery si fece saltare. D'accordo, la palla era bassa e lenta. Mi scivolò sotto il corpo, va bene, e io qualcosa di meglio potevo fare. Però. Ehi, dico Beckenbauer. Mica uno qualunque. A un quarto d'ora dalla fine, i tedeschi pareggiarono. Il cross di Schnellinger non era niente di che. Si capiva che sarebbe finito dove finì. Invece lasciammo che Seeler colpisse la palla con la testa. All'indietro. E sì, lo ammetto, ero un po' fuori dai pali, ma diamine pure Mullery, ancora lui, che rimase lì a guardarselo. Due a due. Tempi supplementari. Il terzo che fecero, lo segnò Gerd Mueller, rimasto solissimo dentro l'area piccola. Labone, Brian Labone, se lo era perso. Però diedero la colpa a me, a me che nelle 6 precedenti partite con la nazionale avevo subito soltanto uno gol. La stampa inglese parlò di papere, i tedeschi la chiamarono vendetta.

E comunque. Se adesso sono qui, a Downing Street, in realtà è per il mondiale di 4 anni prima. Quello del '66. Quello che noi inglesi vincemmo in casa. Ecco. Quella volta rimasi sempre in panchina. Dall'inizio alla fine. Neppure un minuto fra i pali. Per questo motivo, non mi diedero la medaglia. Era il regolamento dell'epoca: si premiava solo chi aveva messo effettivamente piede in campo, non bastava essere fra i convocati. Oggi, 10 giugno 2009, sono a Downing Street perché a 43 anni di distanza dal mondiale vissuto per intero dalla panchina, il primo ministro Gordon Brown consegnerà anche a noi riserve la medaglia che ci negarono nel '66. Si è convinto a riparare. So che gli hanno scritto una lettera perché dopo tanto tempo faccia giustizia. Una lettera, ancora.

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