domenica 13 aprile 2014

Dove le strade non hanno nome: la recensione di Dario De Marco

Ora, sempre a proposito di riferimenti, parlando di narrazioni che invertono lo scorrere del tempo a me vengono in mente varie cose. La prima è La freccia del tempo di Martin Amis. Che però veramente non ci azzecca niente, perché lì non è la narrazione che procede a ritroso, ma proprio la vicenda: inizia che il protagonista muore, poi sta malissimo, poi esce dall’ospedale, poi diventa sempre più giovane ecc. ecc.; ed è lo stesso protagonista che non si capacita di quello che gli succede: molto interessante dal punto di vista logico, perché instaura un rovesciamento pervasivo e universale del principio di causa-effetto (se la morte precede la vita, se la ferita precede il colpo, allora i nazisti sono dei benefattori dell’umanità, e i chirurghi degli aguzzini), ma appunto non c’entra niente.
Poi penso a April March di Herbert Quain, che però ha due fondamentali differenze: uno, è un racconto a biforcazioni temporali antecedenti, nel senso che dopo il primo capitolo non c’è un capitolo che narra del giorno precedente, ma due capitoli che narrano di due possibili e alternativi giorni precedenti, e così via (il malriuscito scopo sarebbe quello di dimostrare che avvenimenti diversi possono portare a risultati uguali, un po’ come nei passaggi meno oscuri de Il giardino dei sentieri che si biforcano di Ts’ui Pe); in secondo luogo, ha il non lieve problema che non esiste: anche se Saramago ha sostenuto il contrario, April March non è mai stato scritto, ma solo recensito in un racconto di Borges. Il terzo ricordo è un film, Irreversible con Monica Bellucci e Vincent Cassel. Lì in effetti le cose sono successe nell’ordine normale, e una volta sola, ma noi le vediamo montate all’incontrario. Scopo del gioco, evidente già dal titolo, metterci in testa che insomma, non c’è niente da fare. E questo, anche nell’enorme differenza di ambientazione e scrittura, mi è sembrato alla fine anche l’effetto che fa DLSNHN. Cioè, arrivato più o meno alla fine del libro, uno è talmente entrato nell’ottica che quello che è prima è dopo, anzi che quello che viene dopo già lo sa, mentre quello che è successo prima ancora lo deve scoprire, che acquisisce una sorta di rassegnazione, di universale e pervasivo senno del poi: e lo applica a tutto, a tutto quello che viene prima di quella settimana, a tutto quello che è venuto dopo. E quindi finisce per pensare, tanto per dire, che lui non ci ha mai creduto al Rinascimento napoletano, al fatto che le cose potessero o dovessero cambiare, si vedeva subito che era un bluff, e dài.

(la recensione completa di Dario De Marco è qui)

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