lunedì 24 luglio 2017

Il racconto del calcio secondo Adani

MILANO. Siamo pieni di allenatori che vorrebbero fare i titoli e di giornalisti che vorrebbero fare le formazioni, abbiamo avuto Vittorio Pozzo che era insieme c.t. e inviato per La Stampa, ma quando Daniele Adani ha detto no a Mancini per rimanere in tv, stava chiudendo un cerchio. Un uomo venuto dal campo che al campo preferisce le parole. Le telecronache, lo studio e pure le interviste, come quella a De Rossi, tra le più belle dell'anno. Su una poltroncina rossa nella sede di Sky a Rogoredo, parla di sport travolto da passione. "Da ragazzo non mi dedicavo tanto alla scuola, mi distraeva dal calcio, e quello sì che invece lo studiavo. Giocavo e cercavo di capire il perché di un movimento, di una posizione del corpo. Ho imparato nel mio paesino e in serie A. Ho imparato cose pure da gente che non stimo".

Quante partite al giorno guarda?
"Il punto non è quante. Scrivo, riassumo dati, appunto osservazioni, poi unisco i fogli con una graffetta: la serie A, la Spagna, le Coppe. A fine anno diventano un pacco alto così, ma che bello scoprire ai quarti di Europa League che una cosa su Dolberg dell'Ajax l'avevo annotata già a settembre. La competenza nasce da buona vista e buona memoria. Tre persone che guardano una partita avranno tre ipotesi diverse. Tutto è opinabile. Ma chi tra un mese sarà in grado di ricordare quattro dettagli, sarà più avanti degli altri".

Le capita di annoiarsi?
"Non mi devo difendere dalla noia, ma dal pressapochismo. È questa l'insidia per chi fa il nostro lavoro. Posso dire nostro, vero? Il calcio è da seri, non da seriosi. Se sei coscienzioso, alla soglia della noia non arrivi. Viene prima il rispetto per le persone di cui parlo e a cui parlo. Senza curiosità, questo lavoro non si può fare. Poi vengono i gusti, gli stili, le opinioni, ma il tempo da investire nella ricerca non è negoziabile. Chi è pagato per comunicare, non può esimersi dallo studio. Lo devi all'abbonato e a chi compra il giornale. Si è comunicatori per offrire qualcosa agli altri, non per soddisfare il proprio ego. Quando ostenti te stesso, nascono slogan e ideologie. Le squadre cambiano da una partita all'altra, il calcio è movimento, come possono resistere slogan e ideologie? Non si può parlare guardando solo highlights. Il calcio è una stella che abbaglia. Più sfumature raccogli, più ti accosti alla verità".

Non pensa che gli allenamenti chiusi sottraggano conoscenza?
"Certamente, ma non basta che siano aperti per avere competenza. Qualcosa a noi all'esterno sfuggirà sempre, anche a me che ho giocato: il credito del campo non è eterno. Ma i calciatori di oggi riconoscono un interlocutore credibile pure dall'umanità, dalla disponibilità all'ascolto, dall'apertura mentale. Si dovrebbe crescere insieme, avviene raramente".

Perché i calciatori si sono isolati? Dai tifosi, dai media, dalla società?
"Sono aziende. Sono protetti, controllati, indirizzati. Il calciatore che pensa poco, dice cose meno scomode per sé, il club, il procuratore, la piazza. Ma le colpe sono reciproche. Chi comunica deve mediare, non gareggiare in altezza. Non si diventa autorevoli facendo i protagonisti, anzi, si genera distacco".

Esiste un codice? Esistono domande che voi ex non fate?
"Il codice non è nel contenuto, ma nella forma. Con i modi giusti, mostri rispetto e ti metti nelle migliori condizioni per ricevere. Esiste questa leggenda nel mondo della comunicazione, per cui il più duro è il più bravo. Ma in una intervista contano solo le risposte che ottieni. Se alzi un muro, non viene fuori niente. Se fai una domanda basata sul tuo ego, il piatto resta vuoto. Mai mettere sé stessi davanti al calcio. In questo lavoro non si può bluffare più".

Parlava così anche da calciatore?
"Vengo da una famiglia semplice, sono la somma di tanti ascolti. Ero così, certo, e pure al bar, al mio paese. Ho smesso a 34 anni perché stavo perdendo questo spirito, forse mi mancava l'autostima, ero infelice, volevo imparare altro. Non so cosa farò ancora. Un percorso è fatto di una vocazione, di tempi e di incastri. Sto bene a Sky perché ci sono grossi margini di crescita nella divulgazione".

Nel grande dibattito dell'anno su bellezza e concretezza, lei è stato tra i pochi a schierarsi dalla parte della bellezza. Perché?
"Perché non sono facce contrapposte. L'estetica non è una colpa, non è sinonimo di inefficacia. Cosa c'è di male nel dire che il Napoli gioca un calcio tra i più belli d'Europa anche se arriva terzo? Non sarebbe più forte se fosse più brutto, non sarebbe più efficace senza essere così bello. Sarri è per me un maestro all'altezza di Bielsa e Guardiola. Insegnano valori, ti mostrano le pieghe del calcio. Non saprei immaginare nemmeno nell'anticamera del cervello che Wenger è da cacciare perché non vince la Premier. Ma noi siamo il Paese che ha fatto andar via Garcia e Benítez, trattandoli da incapaci. I migliori calciatori nascono in Sudamerica eppure pensiamo che debbano adattarsi a noi. L'errore più grande è aver trasformato il racconto del calcio nel mestiere della negatività, nel racconto degli errori dopo un 5-4. È l'emozione che deve guidarci. E quella puoi trovarla nel calcio del Napoli, in un gol di Messi, ma pure in un recupero di Mandzukic e nell'abbraccio tra due allenatori a fine partita".

(su Repubblica, 23 luglio 2017)

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