mercoledì 3 giugno 2015

L'arte di sbagliare i rigori


CI SIAMO tanto innamorati della solitudine del portiere da ignorarne un'altra più tremenda. Quella del rigorista. Uno che ha la porta spalancata sotto gli occhi, undici metri di campo davanti e tutto da perdere. Dovrà far gol per sentirsi dire che nel suo gesto non c'era niente di speciale. La scienza s'è messa al suo servizio. Gli studi sul rigore perfetto non si contano più. Si va dal consiglio di calciare centrale perché i portieri si lanciano di lato nel 93% dei casi (come sostiene l'economista Steven Levitt) a una rincorsa di massimo cinque-sei passi (John Moores, Università di Liverpool); dalla velocità ideale del tiro di cento chilometri all'ora (Università Ben Gurion di Eilat, Israele) al suggerimento di avere una traiettoria prestabilita in testa sin dal principio (Ignacio Palacios-Huerta, altro economista). Perfino Stephen Hawking s'è dedicato alla materia e c'è pure una sorta di antistudio dello psicologo Gerd Gigerenzer, il quale in sostanza dice fate un po' come vi pare, affidatevi all'istinto, più si pensa e più si sbaglia.
E poi c'è il metodo Higuaín. Gli guardi le unghie delle mani, rosicchiate con un certo accanimento, e ne intuisci la tipologia umana. Gli guardi sbagliare un po' di gol faccia a faccia con il portiere, dalla finale mondiale contro la Germania alla semifinale europea contro il Dnipro, e il sospetto si rafforza. Arrivano in sovrimpressione i precedenti della stagione (errori contro Chievo, Atalanta e Milan) e a quel punto il sospetto sfuma in una certezza.
Non è arte sua. Non c'è niente di male. Si può essere un fenomeno e non sapere come venirne a capo oppure essere Balotelli e non sbagliare (quasi) mai. Il calcio di rigore ha una geometria complessa. Benítez lo sapeva: «Non penserete che sia facile» disse a Liverpool. Figurarsi a Napoli, figurarsi se è facile tirarne uno che vale una quarantina di milioni.
La storia è piena di fuoriclasse che ne hanno sbagliati di importanti ed è piena pure di campioni che si sono tirati indietro: Falcão in una finale di Coppa dei Campioni, Baggio contro il suo vecchio amore fiorentino, Thiago Silva ai Mondiali con il Cile. Higuaín sceglie di stare nella schiera dei primi. Va, tira e lo manda in cielo. Gli occhi bassi e pieni di paura erano un presagio. Dibattito, allora: il coraggio vive in chi comunque affronta la prova o in chi guarda i compagni e confessa di non sentirsela? Per giunta, al rigore da 40 milioni di euro, a 15 minuti dalla fine della partita-spareggio contro la Lazio, il povero Higuaín arriva dopo aver appena segnato una doppietta. Insomma, se è così decisivo lo è per merito suo. Perciò tira. Mette il pallone sul dischetto sapendo tre cose. La prima: il fallo non c'è. La seconda: il Napoli è vittima della Nemesi, visto che ai rigori ha vinto a dicembre la Supercoppa con la Juventus in 18 tiri, ma dopo ne ha sbagliati a ripetizione, e non solo con lui, pure con Mertens (nelle Coppe) e con Insigne (e negli anni precedenti con Hamsik, tre anni fa 5 errori su 9 costarono la qualificazione alla Champions). La terza: nell'aria c'è l'umore di una città depressa, scettica, che per un anno ha piazzato sulla testa della squadra una cappa di malumore e di sfiducia, rigettando il progetto di internazionalizzazione di Benítez come un corpo estraneo. Il tradimento vero di Benítez non è andare al Real, ma essersi seduto per l'ultima partita in panchina con un corno rosso. Higuaín insomma va a tirare con tutta questa zavorra nelle gambe, sentendo che Napoli è un ambiente dove si è perso troppo per saper apprezzare il gusto di una vittoria, e dove si è vinto pochissimo per sapere come si gestisce una sconfitta. Per questo il manuale del rigore perfetto non serve. Per questo se il rigore si potesse ripetere, calciarlo di nuovo oggi, stasera, e se magari potesse tirarlo Cavani, o meglio ancora Maradona, ecco, quel rigore volerebbe lo stesso alto sopra la traversa. È il posto suo.

(la Repubblica, 2 giugno 2015)

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