lunedì 15 giugno 2015

Il sospiro di Enzo Gragnaniello


Non ce ne sono molti di dischi al mondo che si chiudono così. Con un grugnito. Un rantolo che pare di sottomissione, di rinuncia, e che arriva in coda a undici canzoni da cui invece fino a un attimo prima si è sporta la rabbia. Un’insurrezione spirituale. Enzo Gragnaniello dice che non è un sospiro di arrendevolezza, anzi, “semmai di fierezza, di voglia di vivere, perché se il dolore lo hai provato, alla fine lo avverti come un premio”. Il pezzo che in modo tanto singolare chiude Misteriosamente, il suo disco numero 23, a quattro anni dal precedente, si chiama Il viaggio di un amico, nessuna radio d’oggi avrà mai il coraggio di trasmetterlo e ha un’ispirazione così privata quanto evidente.


“È un modo per comunicare una cosa essenziale, anche a un amico che non c’è più”. Pensare a Pino Daniele viene naturale. Ma solo chi non conosce Enzo Gragnaniello può immaginare che vada a raccontarlo apertamente in giro. “Pino? Manca a tutti. Lui ha trasformato la pesantezza della musica napoletana. Ho fatto in tempo a fargli sentire qualcosa, avrebbe dovuto duettare con me in Guardo il mare. Ci stava bene la sua voce, no?”. Del resto non dice, il resto è intimità.
 Ci sono invece Raiz (nel brano che dà il titolo all’album) e Nino Buonocore (Quale futuro vuoi), “che ho convinto per la prima volta a cantare in napoletano”. Un disco uscito in questi giorni, e che Gragnaniello racconta in modo quasi sciamanico. “Io faccio musica per l’ascolto in cuffia. L’unica cosa che davvero mi affascina è lo stupore. Le ansie, le emozioni, le paure: tutti misteri. Sono i tg che raccontano il visibile. La musica invece è nel silenzio, la devi percepire. Quando facevo il giardiniere, un giorno mi accorsi che sentivo dei suoni. Ebbi paura. Non era il vento, non erano le foglie, sentivo proprio delle armonie. I violini. I flicorni. C’è gente che sente la voce della Madonna, io sentivo gli strumenti. Era la musica che mi stava chiamando”. Più volte premiato al Tenco, Gragnaniello, 61 anni, ha scelto un percorso musicale appartato. “Ho avuto ai miei piedi per anni i più grandi discografici italiani che mi incensavano. Facciamo, diciamo, vendiamo. Ho respinto tutti, mi avrebbero tolto la libertà”. Oggi canta versi come “Quale futuro vuoi se non ti svegli mai”, “Guardo il mare e qui voglio restare”. Ma avverte che non è di Napoli che sta parlando, “mi stanca parlare di Napoli, in venti dischi non l’ho fatto mai. Napoli sono io. Nel senso che ne sono un frammento. E una mela non parla di una mela. La musica napoletana esiste e non esiste, è cresciuta quando si è impastata al resto del mondo. I napoletani migliori sono quelli che non vogliono fare i napoletani. Io canto in dialetto solo perché è una varietà vocale, un mantra, una spinta alla meditazione. Forse in un’altra vita ero africano e certe cose le avrei dette in un’altra lingua”. Sempre con la stessa rabbia.

(uscito sul Venerdì di Repubblica del 15 maggio)

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