martedì 31 dicembre 2013

Combi, il Lord che portava i maglioni


Tutti noi della nazionale italiana ci presentammo intorno al letto di Ceresoli. Meazza, Rosetta, Orsi, io. Il ct Pozzo sperava in un angolo, in silenzio, poi in ospedale arrivò il medico e Pozzo smise di sperare. Toccò il braccio sinistro al portiere dell'Inter e disse che era rotto. "L'omero. È spezzato". Se lo era fratturato in allenamento per parare un tiro di Pietro Arcari. Lanciandosi. Del resto si buttava anche quando non serviva. Ceresoli non parlò, lo fece Pozzo al posto suo, mi guardò e sussurrò che sarebbe toccato a me. In piemontese. Mancavano 12 giorni al Mondiale del '34 e io, Gianpiero Combi, mi misi a piangere.

Toccò a me la maglia da portiere della nazionale italiana che giocava in casa. Il Mondiale fascista. Il Mondiale da vincere. A me, che avrei voluto lasciare il calcio già dopo il quinto scudetto vinto con la Juve, il quarto di fila, un mesetto prima. Pozzo mi aveva convinto a rimandare. "Vieni con noi almeno al Mondiale". Per mettermi in forma mi allenavo dieci ore al giorno. Avevo 15 anni di carriera con la Juventus alle spalle e 10 di nazionale. Ma mi facevo sempre male. Perciò il c.t. mi aveva preferito Ceresoli, e io alla fine mi ero lasciato andare. Perciò fu tutta una rincorsa, quel Mondiale. Il debutto contro gli Stati Uniti, le due partite con la Spagna, la semifinale con l'Austria - quando fui tra i migliori in campo. Tutta una rincorsa fino al giorno del titolo, la vittoria ai supplementari sulla Cecoslovacchia, e poi il mio addio. Alzai la Coppa Rimet e lasciai, sono stato il primo portiere capitano di una squadra campione del mondo, 48 anni prima di Zoff. Avevo 32 anni e ci tenevo a chiudere in bellezza. Quarantanove giorni dopo il Mondiale salutai pure la Juventus, 2-1 all'Admira Vienna, poi basta, a casa, per sempre. Dissi che volevo sfuggire alla sorte di quei vecchi attori che si concedono la serata d'addio. (*)

Mio padre possedeva a Torino una piccola industria di liquori. Mi voleva in ditta già da ragazzino. Io invece avevo fatto sempre di testa mia, con gli amici andavo a giocare a calcio ai giardini di Porta Susa. Mi chiamavano Fusetta, significa fulmine, lampo, petardo. E allora un giorno i miei genitori chiusero il fusetta in un collegio. Fino a Pinerolo mi mandarono. Uscii di lì solo per andare a fare un provino col Torino. "Non ha stoffa", dissero. Che testa dura, io. Tentai con la Juve. Mi presero.

All'inizio ero un disastro, nelle uscite non sono mai stato un fenomeno. Mi allenavo nel cortile di casa, con un esercizio che ho inventato io: calciavo la palla contro un muro e la bloccavo con le mani. Quando arrivai in Nazionale presi sette gol al debutto, a Budapest contro l'Ungheria, andai in campo all'ultimo istante al posto di De Prà. Avevo un cane danese, portavo le ghette e i capelli lunghi. In campo indossavo un maglione a collo alto, pantaloni di fustagno confezionati su misura e imbottiti ai fianchi, con due tasche in cui infilare le mani e le sigarette. Nell'intervallo me ne fumavo sempre almeno una. Si sapeva che soffrivo il freddo. Nessuno invece seppe mai il nome del mio sarto.

Combi, Rosetta, Caligaris. Ricordàtelo. Noi tre siamo stati una filastrocca popolare prima di Sarti, Burgnich, Facchetti. Dopo la vittoria del '34, Mussolini ci chiamò a palazzo Venezia. Starace venne incontro alla Nazionale e disse: "Bravi ragazzi, grandi, avete onorato eccetera eccetera, ora il duce vi riceverà, vuole farvi un regalo, fatevi venire un'idea su cosa desiderate". La federazione ci aveva già pagato 20mila lire. Borel aveva in mente di chiedere una licenza scolastica, chi lo sa perché, era una sua fissazione. Io ero per una tessera ferroviaria a vita, viaggiare è molto meglio che passare per una persona colta, e comunque si imparano più cose. Il regalo alla fine fu una foto del duce con autografo. Che detto fra di noi a casa mia non arrivò mai. Del resto, per otto anni, a me non era neppure mai arrivato lo stipendio, e mai l'avevo chiesto. Ero diventato professionista, se così si può dire, solo quando i miei volevano che partissi per l'America, a curare gli affari di famiglia dall'altra parte dell'Oceano. Non fatevi domande sulla nostra distilleria ai tempi del Proibizionismo. In ogni caso non andai. Ne parlai alla Juve, mi diedero uno stipendio e mi regalarono una macchina, una 501. Ma pretesi di non essere ricompensato quando della Juve diventai dirigente, lavorando al fianco di Umberto Agnelli. Del resto, per la Juventus avevo giocato con tre costole rotte; una volta, mi pare col Brescia, svenivo ogni tanto dal dolore, e l'arbitro interrompeva il gioco, il massaggiatore veniva a tirarmi su con degli impacchi gelati dietro la nuca. Contro la Cremonese, un giorno avevo una vertebra incrinata, e me ne rimasi appoggiato al palo tutte le volte che la palla era lontana. Ho giocato con l'itterizia, con i polsi rotti, con le dita fratturate, con il setto nasale deviato. In uno scontro con Caligaris mi ruppi un braccio e perdevo sangue da un orecchio, lesione della tromba d'Eustachio. Ero come un burattino che cadeva ogni volta che mi rimettevano in piedi, ma al malocchio non ho creduto mai. Ecco com'ero, per questo non potevo prendere soldi dalla Juve per starmene dietro una scrivania. Qualcuno l'ha fatto. Qualcuno lo fa. Non io, non potevo. Io ero Gianpiero Combi.

"Tutte le cause a cui fu chiamato
le ha servite con fedeltà ed onore" 
(dall'orazione funebre di Vittorio Pozzo, 1956).

(* fonte: un articolo di Alberto Fasano pubblicato su Hurrà Juventus del 1975, consultato sul blog "Il pallone racconta")

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