lunedì 4 novembre 2013

Letteratura dell'anti-madridismo. E dell'anti-juventinismo

Tutto comincia nelle Asturie. La scintilla si accende con un coro. "Asì, asì, asì gana el Madrid". Così vince il Madrid. Così come? Grazie all'arbitro: questo significa il coro che ormai accoglie il Real su quasi tutti i campi di Spagna. Il 25 settembre del 1979 è la data di nascita universalmente accettata dell'antimadridismo. Il pretesto è un episodio come tanti, l'espulsione al sesto minuto di Enzo Ferrero, numero 11 dello Sporting Gijón allo stadio El Molinón. Ferrero è marcato da San José, scatta, i due si ostacolano, si mettono le mani addosso, ci scappano un paio di spintoni, San José cade. Rosso. L'arbitro manda fuori Ferrero. Asì gana el Madrid. Sul prato arriva di tutto. Quando la gente asturiana vede il rosso a Ferrero, si scatena ripensando all'anno prima. Il Gijón era stato avversario del Real per il titolo. Aveva perso lo scontro diretto in casa, giocandolo senza Dória né Ferrero, espulsi la settimana prima a Salamanca.


Una polemica enorme era scoppiata in precedenza per un gol concesso al Real contro l'Athletic Bilbao (3-3 il risultato finale). Classifica finale: Real 47, Gijón 43.

 

Quel cartellino rosso, insomma, diventa l'istante finale di un'inimicizia covata a lungo ed è l'alba di un'ostilità che ancora dura. Alla sua prima stagione da allenatore del Real, Mourinho infatti la rinfocola accusando l'allenatore del Gijón, Manolo Preciado, di essere andato al Camp Nou di Barcellona con le riserve. Per perdere. “Mourinho è una canaglia, a Gijón siamo gente del popolo, ma sappiamo perdere. In Inghilterra lo metterebbero in prigione”, fu la risposta. Mourinho dovette andare in panchina con quattro guardie del corpo, ma quando a Preciado morì il padre gli telefonò.

Settembre 1979. L'anti-madridismo esplode quando la Spagna ha da poco chiuso l'esperienza della dittatura. Francisco Franco, il caudillo, muore nel novembre del 1975. Il suo regime politico (1939-1973) si sovrappone a lungo con la guida al Real di Santiago Bernabéu (1943-1977). Il Real delle cinque Coppe dei Campioni di fila dal '56 al '60, la sesta arriverà nel '66. Scrive Daniel Gómez Amat in La patria del gol: "La percezione popolare che il Real Madrid sia la squadra del regime nasce con le vittorie europee, debitamente utilizzate da Franco, incollato al televisore ogni volta che giocano los Blancos. Grazie ai gol del Real, la Spagna migliora la sua immagine internazionale e il Real si converte in un super ambasciatore al servizio della diplomazia franchista”. È il cosiddetto nacionalfutbolismo. Gómez Amat riporta un discorso attribuito al ministro José Solís Ruiz, uomo noto come "il sorriso del regime". Nel ’59 Solís Ruiz dice ai calciatori del Real: "Avete fatto molto. Gente che ci odiava, grazie a voi, ora ci comprende, grazie a voi: avete rotto molti muri".
Quando a Gijón la scintilla si accende, ha tutto questo po' di roba da infuocare. Nacio Vegas, cantautore asturiano che si rifà alla lezione di Bob Dylan e Tom Waits, tifoso dello Sporting, in un'intervista una volta ha detto che "l'antimadridismo nasce come reazione a un calcio sostenuto da valori come arroganza e disprezzo dei rivali, rappresentati da calciatori come Juanito, Hugo Sánchez, Cristiano Ronaldo. Conosco madridisti che sono antimadridisti".

Il capofila letterario di questo sentimento è stato Manuel Vázquez Montalbán. "Il Barça rappresenta l’esercito, disarmato e simbolico, che la Catalogna non ha mai avuto", la frase che Madrid non gli ha mai perdonato. Barcellona a parte, le culle dell'antimadridismo più convinto sono Pamplona e Bilbao, sebbene il San Mamés abbia attribuito ovazioni a campioni come Stielike e Laudrup. L’Oviedo, rivale del Gijón, per reazione appoggiava il Real. Fino al 1988, quando finì male uno scontro fra ultrà durante la festa di san Matteo. Anche il Riazor, a La Coruña, era un campo amico, ma quando il Deportivo si scoprì squadra da titolo e rivale del Real, il coro di Gijon arrivò anche là. E poi a Valencia, che un tempo era stata la seconda casa del Madrid. Lì il Real aveva giocato in campo neutro una partita di Coppa contro il Porto: 68 mila spettatori, 80 milioni di pesetas di incasso, vittoria per 2-1. Tutto perfetto, eppure venne il giorno in cui il presidente madridista Lorenzo Sanz pagò la clausola per sfilare Mijatovic agli amici valenciani. Rottura delle relazioni diplomatiche.

Una squadra che spacca un Paese. Come da noi succede alla Juventus. Mezza Spagna è del Real, l'altra metà è contro. Mezza Italia è bianconera, l'altra metà è convertita alla religione dell'anti-juventinismo. Eppure, la Juve nasce per unire. Lega a lungo l'aristocrazia sabauda e gli immigrati meridionali, i nostalgici della monarchia e gli uomini della sinistra. E' la squadra di tutti. Quasi. Il motivo? C'entra il Medio Evo, così scrive Gianni Brera in “Storia critica del calcio italiano”:
“Sulle direzioni del favore popolare – il tifo! – varrebbe la pena di indagare con riferimenti socioculturali e persino etnici. Il primo responso, ad ogni modo, è questo: che agli italiani piace parteggiare per chi vince. La Juventus gioca bene, vince sempre e non è né lombarda né emiliana né veneta né toscana: appartiene a una regione che ha innervato l’esercito e la burocrazia nazionali: di quella regione, il capoluogo è stato anche capitale d’Italia. Nel Medio Evo non esisteva se non come povero villaggio. Nessuna città periferica aveva contratto odii nei suoi confronti, all’epoca dei Comuni. Essa batteva ormai le decadenti squadre del Quadrilatero e offriva agli altri italiani la soddisfazione di umiliare le città che nel Medio Evo avevano spadroneggiato: i romagnoli andavano in visibilio quando Bologna veniva mortificata dalla Juventus, così i lombardi di parte ghibellina come pavesi e comaschi quando le milanesi venivano battute in breccia, e ancora i lombardi che avevano squadre proprie, come bergamaschi, bresciani e cremonesi, e le vedevano puntualmente vendicate dalla Juventus”.

Poi la Fidanzata d'Italia ha visto piano piano crescere la schiera degli antipatizzanti. Qualcosa si spezza il 16 aprile del 1961, quando uno Juve-Inter viene sospeso per invasione di campo (le tribune non bastarono a contenere gli spettatori). Sarebbe 0-2 a tavolino, la Caf accoglie il reclamo della Juve. Moratti padre si infuria. Per la ripetizione della partita, due mesi dopo, manda in campo la squadra giovanile, compreso il diciannovenne Sandro Mazzola. La Juve vince 9-1 e si aggiudica lo scudetto. E' questa la radice riconosciuta della pianta dell'anti-juventinismo. Verranno poi un rigore non concesso a Rivera in Juve-Milan del '72 (errore ammesso in tv da Lo Bello), er gol de Turone, quello annullato a Graziani della Fiorentina nello sprint scudetto'82, il rigore Iuliano-Ronaldo del '98, il gol fantasma di Muntari nel 2012. Insomma, tutta la letteratura dei militanti dell'anti-juventinismo. E in mezzo c'è Calciopoli, la ferita delle ferite per l'intero calcio italiano, non ancora rimarginata.

La politica da noi è entrata nella discussione molto meno che in Spagna. E' la squadra dei padroni, provava a sostenere l'opposizione operaista nell'Italia degli anni Cinquanta. Ma in tanti tifavano Juve pure in fabbrica, tanti pure dentro i quadri del Pci. Così un giorno Palmiro Togliatti domanda a Piero Secchia: "Tu pretendi di fare la rivoluzione senza sapere il risultato della Juve?". La verità è che vivere da anti, alla fine, logora. Vale per la Juve e vale per il Real. Lo ammise finanche Peppino Prisco, a lungo vice presidente dell'Inter, e dei bianconeri velenosissimo avversario. "Alla lunga ci si rassegna".

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