mercoledì 21 gennaio 2015

L'orologio di Mandorlini, il tempo non passa mai

INESORABILE come una canzone di Sergio Endrigo, Andrea Mandorlini guarda l'orologio e scopre che la festa appena cominciata è già finita. Beati voi, voi così sicuri del fatto che il tempo voli. In quattro giorni, invece, a Verona si sono convinti del contrario. Altro che. Il tempo non passa mai. Come quando deve bollire l'acqua nella pentola. Non fai in tempo a digerire i sei gol del giovedì sera e la domenica il supplizio ricomincia. Cogli l'attimo, predicano i poeti, ma certi attimi allo Juventus Stadium sono tutti uguali, lunghissimi, congelati, e il povero Mandorlini al massimo può cogliere i gol. Pogba ha riaperto i conti con un tiro nell'angolo basso, se ne sono andati appena tre minuti e pochi secondi. A quel punto, al cospetto degli assatanati vestiti di bianco e nero, guardare l'orologio è l'errore più grave che si possa fare, perfino più grave che essersi illusi di rimpiazzare Iturbe con Saviola e Jorginho con Tachtsidis. Eppure Mandorlini lo commette. Butta l'occhio sulle lancette e si espone alla rivelazione che ci sono ad aspettarlo altri 87 minuti di diluvio. Più recupero. A che ora è la fine del mondo?

È il gesto in sé che illustra una certa insofferenza. A ciascuno la propria. Se sei il capo del governo, ti scappa di contare i minuti mentre lì accanto parla Najib Razak, il premier della Malesia. Dentro le chiese la cosa deve essersi diffusa oltre ogni controllo, tanto che un anno fa papa Bergoglio avvertì: «Non guardate l'orologio in attesa che la messa finisca». Sui campi di calcio c'eravamo abituati a veder entrare in scena l'orologio solo nel finale. Arbitro, recupero. Mazzarri lo sollevava al cielo e picchiettava un dito sul quadrante. Ferguson ne ha fatto la sua strategia intorno al 90': «Un trucco per innervosire gli avversari». Ma loro sono del partito di chi chiede di portare le lancette indietro. Domenica, potendo, Mandorlini le avrebbe spostate avanti. Dieci mesi fa c'era già cascato. Il Verona ne prende cinque dalla Sampdoria e lui alla fine confessa: «Al terzo gol ho guardato l'orologio, eravamo solo al 38'». Un complottista allora giurerebbe che si tratta di product placement, come si dice e si usa fare adesso.

Il primo gol della Juventus
Del resto, per gli orologi Mandorlini ha un certo trasporto. Un giorno va in conferenza stampa e si sistema con il pollice sotto il mento e l'indice sulla guancia, nella posa che assumono gli scrittori sul retro delle copertine dei loro libri. Mostra alla platea il polso, il bell'oggetto caro allo sponsor e fa: «Scusate, sono un po' in ritardo ». Se dieci gol subiti in quattro giorni hanno messo in bilico la sua panchina (dicono che Guidolin non veda l'ora), quegli occhi impauriti che cercano l'orologio fanno molto di più, sbriciolando del tutto la vecchia fama fiorita in serie B del Mandorlini duro e attaccabrighe, goliardico si difenderebbe lui. Lui che canta "ti amo terrone" ai tifosi salernitani, fa le corna a quelli del Cittadella e dichiara di odiare i livornesi. Lui che a suo tempo, da calciatore all'Inter, entrò duro sulla caviglia di Maradona. «Protesta? Anziché la gamba dovevo colpirgli la lingua ». Ha cominciato con il furore di Schwarzenegger ed è finito teneramente appeso alle lancette come Harold Lloyd. Ma in quest'immagine di un uomo in ansia per il gol preso dopo tre minuti e per l'attesa degli altri che verranno, c'è pure tutta la distanza tecnica e psicologica che esiste oggi fra la Juventus e il resto d'Italia. È la foto simbolo del campionato. A meno che non ne spunti una in cui Allegri fa uno sbadiglio.

(la Repubblica, 20 gennaio 2015)

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