martedì 27 maggio 2014

Arzú e le lacrime dell'Honduras

arzu Non sapevamo picchiare, non sapevamo perdere tempo e avevamo la mano sul petto mentre suonava l'inno nazionale. E' peccato essere poveri, è peccato essere piccoli. E allora ci fecero fuori. Alla vigilia del Mundial in Spagna, il mio Honduras era una delle squadre di cui si poteva ridere. Gli articoli che raccontavano di noi, parlavano di stregoni, filtri magici e Maradona d'ebano. Questo eravamo: facili parole. Due settimane dopo diventammo un fastidio, un fastidio di cui liberarsi. Come l'Algeria, che poteva fare fuori la Germania. Come il Camerun, che poteva fuori l'Italia. Noi avevamo addirittura osato intralciare il passo dei padroni di casa, 1-1 a Valencia all'esordio: la notte che passò alla storia come l'Hondurazo.

md   "Siamo qui per diventare la squadra simpatia", disse Chelato Hucles, il nostro ct, all'anagrafe José de la Paz Herrera, cresciuto alla scuola di Menotti. Ci aveva portato in Spagna dopo nove mesi di ritiro, di videocassette viste e riviste e di preparazione fisica con quel pazzo di Clovis Morales, uno che s'era diplomato in Germania e credeva alla teoria dei bioritmi. Pareggiammo anche la seconda contro l'Irlanda del Nord e perciò arrivammo incredibilmente alla terza partita con la Jugoslavia, con la possibilità intatta di avanzare alla fase successiva. Eravamo una delle poche nazionali a non alloggiare in un hotel a cinque stelle. E prima di ogni partita, all'ingresso in campo, avevamo l'abitudine di lanciare dei garofani tra il pubblico. Fino ai garofani andò tutto bene, il problema nacque con i risultati. La Jugoslavia aveva in attacco campioni come Surjak, Susic, Petrovic. Ma contro di noi il migliore in campo fu Pantelic. Il loro portiere. Arrivammo davanti a lui con l'uomo smarcato per quattro volte. L'arbitro, un cileno, fu bravissimo a guidare la partita in un certo modo. Facemmo tutto quello che ci venne consentito. Fino a due minuti dalla fine. Quando Sestic saltò in dribbling tre difensori e appena arrivato in area non fece niente per rimanere in piedi. Stava cadendo già prima che lo mandassero giù. Rigore. Un disastro. Ero così distrutto che sul tiro non mi buttai nemmeno. Petrovic appoggiò in porta il gol che non serviva a nessuno: né alla Jugoslavia né a noi. La Spagna, perdendo a Valencia con l'Irlanda del Nord, passava comunque il turno. Miljanic, il ct jugoslavo, disse che si vergognava e che se avessimo vinto noi non ci sarebbe stato proprio niente di male. Daniel Matamoros, capo della nostra delegazione, ai giornalisti raccontò che ci avevano eliminato gli arbitri. Non dico altro, aggiunse, perché siamo un paese povero e non possiamo pagare eventuali multe. Uscimmo dal Mundial avendo subito tre gol di cui due su rigore. Io finii il mio torneo disteso con la faccia nel prato, immerso nel pianto e nella disperazione. Non era rigore, quello, ve lo dico io. Lo dico ancora oggi quando guardo e riguardo le immagini. Per il resto dalla vita ho avuto tutto. Grazie a dio. Portavo sempre un crocifisso nella borsa, insieme ai guanti e alle scarpette e a tutto quanto, e ogni tanto in campo pregavo, pregavo dio che non mi facesse avere bisogno di lui. La mia generazione non si è arricchita con il calcio. Ma ci siamo divertiti. Mi viene la pelle d'oca a ricordarlo, eravamo fratelli, ancora lo siamo, con Ramón “Primitivo” Maradiaga, Gilberto Yearwood, Carlos Orlando Caballero, Héctor “Pecho de Águila” Zelaya. Sono passati trent'anni e mi emoziono. In ritiro, in Spagna, con Costly e Bailey si suonava e si cantava: a me piaceva la batteria. E mi piacevano i calamari fritti: ne ho mangiati fino a disgustarmene. Poi mi ha disgustato la porta. Dopo i 50 anni mi sono messo a giocare nella Lega dei veterani, ma da centravanti. Sono iperattivo, ci sono partite in cui gli avversari non tirano mai, e così mi annoio. In attacco no, in attacco c'è sempre qualcosa da fare. Ripenso al mio Honduras, ai gol mangiati contro la Jugoslavia. Avevamo qualità, questo lo so, ma a volte nel calcio è molto meglio avere fortuna.

 

(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Julio César Arzú sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)

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