giovedì 27 marzo 2014

Tilkowski e il gol fantasma

C'è sempre qualcuno che si avvicina e mi chiede, Posso farti una domanda. E io senza neppure aspettarla rispondo, Non era entrata. Tanto so già cosa vogliono sapere: se il tiro di Hurst era dentro o fuori. Non era gol, lasciatevelo dire da me, Hans Tilkowkski che ero lì vicino. Il portiere che ha subito il gol fantasma più famoso che c'è. Finale dei Mondiali del '66, stadio di Wembley. L'Inghilterra padrona di casa contro di noi, la Germania. Noi in bianco, loro costretti a vestire di rosso. A nessuno importa mai cosa successe nei primi 90 minuti. Nessuno che venga a chiedermi cosa disse Haller dopo il gol del vantaggio, o che cosa gridai a Höttges quando si fece scappare Hurst nell'azione del pareggio.


A nessuno interessa sapere come ci sentimmo quando prendemmo gol da Peters a dodici minuti dalla fine, né della gioia che provammo quando Weber segnò il 2-2 al 90'. Mi domandano solo dei supplementari. E io qui, per una vita, a raccontarli.


Tutto accadde all'undicesimo minuto, l'Inghilterra attaccava, poco prima mi ero lanciato per deviare un tiro poco sotto la traversa e un altro nell'angolo basso alla mia sinistra. James Ball soffiò un pallone dai piedi di Schnellinger, che aveva azzardato una giocata poco prudente ai margini dall'area. George Cohen era qualche metro più in là. Caricò il destro per il cross al centro, ma schiacciò il corpo in avanti. Se avesse spedito come forse voleva il pallone sul palo lontano, non avremmo avuto il gol fantasma più celebre nella storia del calcio. Invece venne fuori una traiettoria smorzata. Hurst fu il più rapido a capire dove sarebbe caduto il pallone. Bruciò Willi Schulz che lo marcava, gli prese il tempo e si fece trovare là dove doveva. Poco fuori l'area piccola. Fece scivolare il pallone di lato con uno stop a seguire, accorciò il passo e usò tutta la potenza che aveva, ancora con il destro, girando su se stesso e rotolando a terra subito dopo il calcio, per lo slancio. La palla batté sotto la traversa e rimbalzò in campo. Non era entrata, non era entrata, non era entrata. Si sollevò anche uno sbuffo di gesso. Significava che aveva toccato la linea. Mentre Hunt alzava le braccia per esultare, Wolfgang Weber allontanò il pallone con la testa.

L'arbitro era uno svizzero, si chiamava Dienst. Era piazzato frontalmente, un paio di metri dentro l'area di rigore, la posizione peggiore per capirci qualcosa. Infatti non capì. Non vide e non capì. Corricchiò per un poco verso di me, chissà cosa cercava di ottenere. Poi sterzò e si diresse alla sua destra, ai bordi del campo, dov'era sistemato un arbitro sovietico, quel giorno utilizzato come guardalinee. Un quarantenne che fino a un ventennio prima aveva fatto la guerra alla Germania con la divisa dell'Armata Rossa. Nome: Tofiq. Cognome: Bachramov. Il sergente Bachramov. Veniva dalla repubblica sovietica dell'Azerbaijan.


Dienst e Bachramov si consultano


I tedeschi protestano con Bachramov

I due parlarono a gesti. Con la bandierina calata verso il basso, Bachramov agitava la mano destra e faceva cenno di sì con la testa, era gol, l'aveva vista dentro. Fu in quell'istante che Dienst commise il più grave errore della sua carriera. Gli credette. Si fidò di lui. Portò il fischietto alle labbra, gettò un brevissimo sguardo verso la nostra area di rigore e con la testa bassa si incamminò verso il centro del campo. Schulz, l'unico dei nostri che s'era avvicinato ai due mentre parlavano, si piegò disperato sulle ginocchia. E mentre gli inglesi abbracciavano Hurst, tre dei miei compagni corsero a circondare Bachramov per protestare. Schnellinger riportò il pallone con i piedi a metà campo, Beckenbauer non fece nulla, se non guardarsi intorno incredulo. Il tabellone di Wembley segnò: Inghilterra 3, Germania 2. Avrebbero poi segnato anche il quarto gol, ma tutto il mondo sa che non ci sarebbe stato nessun 4-2 senza il 3-2 fantasma.

Il giornalista italiano Gianni Brera sospettava che non ci fosse buonafede nella decisione di Bachramov. A parte i vecchi motivi politici, in semifinale avevamo battuto per 2 a 1 l'Unione Sovietica. La cosa incredibile è che non ci fu nessuna sospensione per il suo errore. Ai Mondiali del '70 era di nuovo in campo. Un premio. I nostri invece erano andati in fumo. Per la finale c'eravamo preparati nel ritiro di Welwin, la nuova città giardino: tra di noi si scherzava sul nome, dicevamo che ci avrebbe portato fortuna, che era un bel segno essere proprio lì. Era proibito rilasciare interviste. Ricordo che solo per Schnellinger si fece un'eccezione, disse qualcosa ai giornali italiani dopo aver ricevuto un telegramma di congratulazioni dal presidente del Milan. Dopo la semifinale con l'Urss, io avevo un dolore a una spalla. Seeler era contuso, Höttges aveva male a un calcagno e si temeva che Beckenbauer potesse essere squalificato per la seconda ammonizione del torneo (*). Invece ebbe via libera. Per quei Mondiali la federazione tedesca garantiva a ogni calciatore un gettone di 250 marchi per ciascuna partita giocata. Ma per una vittoria in finale girava voce che ci avrebbero regalato un appartamento a testa. Una fabbrica di Monaco offriva 1500 litri di birra, un campeggio di Francoforte otto giorni di ospitalità. Tutto svanito. Con il gol di Hurst.

Se avessi preso un marco ogni volta che mi hanno fatto la solita domanda, sarei uno degli uomini più ricchi del mondo. Quel gol fantasma mi ha reso famoso, ma avrei preferito essere un anonimo campione del mondo. Il gol di Hurst e il mio nome viaggiano insieme. Ho dovuto convivere con quella decisione. Pensavo a mio padre che aveva lavorato in miniera lungo la linea ferroviaria che portava a Dortmund. Si viveva in un palazzo con altre sette famiglie e si mangiava quel che c'era. Ho imparato a non fare palline con le molliche del pane, a non sprecare il cibo, a dividerlo con gli altri. A 11 anni i miei vollero che facessi sport perché in questo modo c'era anche un club che si occupava di me. Sarei cresciuto meglio. Era il 1946, la Germania doveva rialzarsi. Il fatto che lo stadio fosse vicino casa mi faceva sentire al sicuro. Ecco. Ogni volta che Hurst mi è tornato in mente, lui e quello sbuffo di gesso alle mie spalle, mi è bastato ripensare alla mia infanzia per evitare che il suo gol diventasse un'ossessione.


Hurst e Tilkowski sotto la statua di Bachramov a Baku

Fino a qualche anno fa. Quando mi arriva un invito da Baku, capitale azera. Devono inaugurare una statua all'esterno dello stadio. E' dedicata a una gloria locale cui hanno intitolato l'impianto. Un ex calciatore, poi arbitro. Lui. Bachramov. C'erano Blatter e Platini, volevano anche Hurst e me. Con Hurst c'eravamo punzecchiati per anni a distanza, e mai più rivisti. Insomma: andai. C'è di peggio nella vita. Ci sono bambini ammalati di cancro che con qualche partita di beneficenza ho provato ad aiutare. Cosa volete che sia un'ingiustizia in una finale mondiale. A Baku dovetti tenere un breve discorso su Bachramov, dissi che aveva dato lustro al suo Paese con la carriera arbitrale, che senso aveva recitare il ruolo del vecchio rancoroso? La verità, tanto, si conosce. Feci solo un mezzo sorriso mentre lo elogiavo, ma forse non se ne accorse nessuno.

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