mercoledì 15 luglio 2015

Mettete Napoli nei vostri docu-reality

Una volta era più facile. C’erano i film e c’erano i documentari. Non esisteva la minima possibilità di confondersi. Nei film si recita una storia, con i documentari si diffonde la conoscenza. A parte qualche incertezza teorica iniziale sui Lumière e sulle loro riprese dell’uscita degli operai dalle officine, la distinzione è stata presto netta: quelli di Murnau sono film, quelli di Flaherty sono documentari. Nel ’43 per i documentari l’Academy istituisce anche l’Oscar, e in corsa ne troviamo di firmati da John Ford e da Frank Capra, ma dubbi sulla loro natura non ce ne sono. Dovendolo spiegare a un bambino di cinque anni, in un documentario non ci trovi le attrici. Lo so, vi state chiedendo che cosa c'entra Napoli.

Fino a quando il documentario non inizia a cambiar nome. Là cominciano i problemi per Napoli, anche se Napoli ancora non lo sa. Passi per il mockumentary, vicende di fantasia camuffate da realtà (come Zelig di Woody Allen). Il gioco è chiaro, dichiarato, e non ci sono conseguenze. Il quadro si ingarbuglia quando arrivano i suffissi. Quando pare che “docu” da solo non basti più. Non è solo una questione lessicale. Il quadro si ingarbuglia appena il genere comincia a perlustrare e camminare nelle terre di mezzo. Nascono così la docu-fiction e il docu-drama, che contengono scene girate con attori per ricostruire una realtà altrimenti non documentabile. Dove non arrivano gli archivi e le teche, arriva insomma la recitazione. E i linguaggi cominciano a mescolarsi. La finzione si impasta nel reportage. Ancora un passo e siamo al docu-film, in genere definito come la ricostruzione di un fatto attraverso filmati e interviste. Il primato dell’ibrido si registra quando appare il docu-reality. Un controsenso, a pensarci bene. Una ridondanza. Il reality di suo non prevede un copione, dovrebbe portare in scena brandelli di vita reale. Se fosse davvero questo, se fosse ciò che indica il vocabolario Treccani (“documentario televisivo che propone scene di vita realmente accadute”) in fondo non sarebbe in contrasto con il documentario nudo e puro. Poiché sappiamo tutti che così non è, e che lo spettacolo della realtà è più spettacolo che realtà, allora docu-reality smette di essere un controsenso linguistico per diventare la trasmissione di scene di finta vita reale.

Ora, a me pare che il docu-reality sia diventato il genere con cui l’industria della narrazione rappresenta preferibilmente il Sud e Napoli. Le Lucky Ladies di Foxlife (dopo gli asterischi trovate il pezzo uscito sul Venerdì di Repubblica lo scorso 3 luglio) ne sono l’ultima prova. Le Ladies napoletane arrivano dopo Il boss delle cerimonie e prima de Il boss dei prediciottesimi, in tv in autunno. Per inciso va aggiunto che La7 lancerà un talent con Alessandro Siani dal titolo Il boss dei comici. E qui l’uso della parola “boss” comincia a diventare non più marpiona ma offensiva. Avrebbero potuto usare: campione, re, patriarca, sovrano, sultano, scià, principe, monarca, imperatore, kaiser, zar, signore. Ma trattandosi di sud hanno scelto “boss”. La via più comoda. Semplice è del resto illustrare Napoli e il sud con la formula spuria del docu-reality. Non sai mai se quello che stai vedendo è vero o è falso, se è accaduto sul serio o se è stato ricostruito. Non lo sai e non lo devi sapere. Basta l’evocazione di Napoli. L’agnizione di Napoli. Devi avere l’idea che quel posto sia un altrove, dove la verosimiglianza può rimpiazzare la cronaca. E' sufficiente alludere. Accennare. Evocare. Il resto lo fanno gli schemi. Il format Napoli.





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Né casalinghe né disperate. Francesca, architetto, ha inaugurato un locale al Vomero. Annalaura è manager in un cantiere nautico e ha una guida spirituale in Brasile. A Carla, art dealer, non togliete l'equitazione, mentre lo sport di Flora, avvvocato, è la vela. Gabrielle è stata miss Panama e ha una figlia che è andata male in geografia: cos'è successo bimba, niente mamma sei tu che hai detto di non andare a scuola perché avevamo golf. A Carnevale la piccola si traveste da casalinga napoletana. Amiche tenute insieme intorno a un cocktail da Alessandra, narratrice di una Napoli che - voce fuori campo - "nascosta dietro i cancelli di ville lussuose, nelle cabine degli yacht, brilla nel buio come un diamante: vederla risplendere è un privilegio di pochi". Stacco della camera, un tacco 12 sotto un pantalone dalla zampa leopardata, tre cuoricini tatuati sul piede all'altezza dell'osso cuboide e una scarpa che pare la sintesi dell'orto botanico. "Ragazze, che ci mangiamo?". Les Napolitaines.

È questa dunque la rappresentazione della upper class della terza città d'Italia, lo shopping, i party, la beneficenza che si chiama charity. Vite coltivate nel terrore di doversi allontanare dalle rive di Ischia e dalle piste di sci dell'Aremogna, Roccaraso, la neve dei fighetti napoletani, localmente detti "chiattilli", piattole, zecche, traduzione da un gergo cittadino ancora impastato di lotta di classe, in memoria della guerra civile del 1799 nel frattempo diventata teatro e parodia. Posillipo, San Pasquale, piazza dei Martiri: i localini, i baretti, tutto è vezzeggiativo dentro il Triangolo dell'Apericena di quest'alta borghesia napoletana, dalle cui fila sono state scelte le protagoniste di "Lucky Ladies", trattate poi in vitro per il programma di Foxlife, docu-reality in prima serata ogni mercoledì. Dopo la sezione pistole e fucili, del baraccone Napoli la tv ci mostra il lato borse e gioielli. Verità, finzione o mostro a due teste? La rete della grande famiglia Sky giudica buoni gli ascolti, i social invece sono una pentola a pressione. Di fronte alla critiche, si fa una risata Annalaura Di Luggo: "Mai immaginato di rappresentare qualcosa. Il mio è lo spirito di una persona che gioca. Per esempio, sono una che su Twitter mette molte stelline". Per esempio. "Faccio una vita normale, sì, certo, pure lo sci nautico: ma sono lucky perché apprezzo il dono della vita. Bisogna saper distinguere la quantità di docu dalla quantità di fiction".

Chi si è e quanto si interpreta? Alessandra Rubinacci, la voce delle Ladies, appartiene a una famiglia napoletana che s'è fatta un nome nella sartoria di classe. "La mia parte seria qui non è in gioco. Se avessi dovuto interpretare la persona elegante, allora avrei preferito restare sul divano a guardare. La gente commenta solo se è contrariata, ma la sobrietà non ha pubblico. Chissà quanti documentari passano su National Geographic dedicati alle eccellenze di Napoli nel mondo. Chi li guarda? Nessuno. E il problema siamo noi? Non ho fatto un programma trash, è intrattenimento. Non credo che si possa fare evasione piangendosi addosso. Nel raccontare Napoli nessuno cerca la normalità. Se il colore non piace, si può cambiare canale".
Dentro questa bourgeoisie così ricostruita, lady Carla Travierso non riconosce né la città né se stessa. "Ho vissuto quest'esperienza in tv come affrancamento dalle costrizioni della mia famiglia, volevo fare teatro, me l'hanno impedito. Ero consapevole che certe linee sarebbero state portate all'eccesso, tacco e trucco non mi appartengono, i miei feeling sentimentali sono stati tutti inventati. Doveva essere attraente la vanità. Faccio rinunce per potermi tenere l'oro, ma in tv non si vedono. Non sono così lucky, nella vita non prendo aperitivi nelle suite degli alberghi". Carla Travierso pensava di essere stata scritturata per la sua esperienza di sopravvissuta. Due anni e mezzo fa, era sotto la doccia quando crollò il salone di casa sua, insieme all'ala di un palazzo alla Riviera. "L'upper class come la vedo io? Un ceto gretto, chiuso, gente per cui il centro storico è zona popolare, non patrimonio Unesco. L'upper class americana è trasversale, a Napoli è decisa dalle origini della tua famiglia". Ma allora, viene da chiedersi, preché prestarsi? "Mi piaceva l'idea di mostrare una città senza rifiuti e senza delinquenza. Lo spirito è stato tradito. Pensavo di fare qualcosa di profondo per Napoli. Non sono ricca, sono una privilegiata. Ma non ostento. Sono benestante per via del mio lavoro, non per rendita. La prima notte dopo il programma non ho dormito. Ho vissuto malissimo le critiche. Ho scoperto sulla mia pelle il contrasto enorme che esiste fra tv e realtà".

Chi conosce la complessità di Napoli e i suoi strati, quasi si arrende dinanzi a questa nuova semplificazione. Il ragionamento di Daniela Lepore, docente di tecnica e pianificazione urbanistica all'Università Federico II, seguitissima blogger finché non ha chiuso il suo spazio: "Nei luoghi tradizionali dell'alto borghesia si sono introdotte persone benestanti senza storia, sveglie, con una bella barca, fanno belle vacanze ma non mandano i figli a studiare all'estero. Alto borghesi per censo. La nuova generazione più metropolitana che incrocio nelle lauree triennali, dalle quali i figli della borghesia si tengono distanti, scommettono su se stessi. Vanno a Londra a fare panini per iscriversi a un Master. Sono ragazzi che si chiedono se valga la pena accettare un 22 a un esame pur di non uscire fuori corso e pagare un altro anno di retta. Ai bagni di Tiberio, a Capri, la buona borghesia napoletana leggeva libri all'ombra, al silenzio, da Gerardo Chiaromonte a Raf Vallone. Oggi è stata sostituita da gente che trascorre il tempo a discutere dei diversi modi con cui si fa la parmigiana di melanzane". Enrica Amaturo, direttrice del dipartimento di scienze sociali, aggiunge: "Napoli ha sempre fatto i conti con l'idea che si ha di essa: penso al "paradiso abitato da diavoli", alla Pelle di Malaparte, all'etichetta di Masaniello che si attribuisce in giro. Ma dai giorni dell'emergenza spazzatura, la città non riesce più a liberarsi di tutto questo, anche perché una parte di essa ama cullarsi nei propri cliché. Questo ritratto tv dell'upper class ha tinte eccessive. Dov'è l'understatement così tipicamente napoletano? Quello di Giorgio Napolitano e di Mirella Barracco". O forse la vera borghesia si è ritirata dalla scena pubblica, come teorizzò 8 anni fa tra le polemiche l'allora prefetto Alessandro Pansa. "Una classe - continua Enrica Amaturo - che ha avuto cattivi rapporti con la politica, io stessa sono uscita delusa dalla esperienza di amministratrice comunale: ma alla borghesia è consentito esercitare la propria azione? Conosco alcune delle persone impegnate nel reality. Sono migliori di come appaiono. Purtroppo esiste questa idea di Napoli all'eccesso, nel bene e nel male, agli estremi, nella caratterizzazione delle sue persone".

Prova a spiegare Alessandro Lostia, torinese, il manager che per i produttori di Fremantlemedia ha ideato la versione italiana del format: "Milano e Roma sono spolpate. Per il programma erano in corsa Napoli e il nord-est. Dopo provini e sopralluoghi, per un innamoramento estetico, abbiamo scelto Napoli". Modelli letterari per il programma? "Se fosse stato ambientato al nord, avremmo indagato dentro il mondo del "Capitale umano" di Virzì. Per Napoli invece avevo in mente "Ferito a morte" di La Capria". Ma alla fine quella Napoli non c'è. "Avremo fatto una quarantina di provini. Ci piaceva l'idea di raccontare una città dall'energia positiva, che appare poco". Ci sarà una seconda stagione. "Ragazze, che ci mangiamo?".

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