venerdì 24 aprile 2015

Non scendete a Napoli

Napoli è città che in fondo si raggiunge per linee verticali. Si va giù Napoli. Lo fa chi torna a casa per le vacanze dopo aver scelto di vivere altrove (ovviamente al nord), lo fanno gli stessi napoletani della medio alta borghesia, riparati sulla collina cittadina, che sia Posillipo o sia il Vomero. Anche per questo l’avvertimento di Antonio Pascale, con il titolo del suo nuovo libro, suona in verticale: “Non scendete a Napoli” (Rizzoli, 230 pagine, 15 euro). La sua è la guida perfetta su una non-visita. Cosa vale la pena perdersi della città più raccontata e più permalosa per la rappresentazione che si fa di se stessa, soprattutto adesso che il web amplifica la voce dei brontoloni. Può capitare infatti che un autorevole quotidiano inglese spedisca l’inviato della sua sezione “Viaggi” a Napoli e che quello magnifichi le bellezze della città, i suoi musei, le sue piazze, le sue chiese.


Eppure ci sarà qualcuno a Napoli che insorgerà contro l’approssimazione del giornalista che non ha visto le buche in strada, i quartieri ghetto e la delinquenza che rende prigionieri. Solo che la settimana dopo lo stesso quotidiano associa il nome di Napoli alla camorra, e allora Napoli insorge per dire che ha ignorato tutto il resto: i musei, le piazze, le chiese. La pizza è buona? Napoli sbotta: basta con il folklore. Un giapponese vince il campionato mondiale dei pizzaioli? Napoli protesta: che affronto. Questa è la cornice, questa è la realtà dentro cui si muove la “controguida appassionata” di Pascale (“Io a Napoli ci sono solo nato”), che si è intestato l’impresa di muoversi su un terreno sdrucciolevole, una lunga passeggiata sulle uova. Dall’alto della terrazza di Castel Sant’Elmo, esatto e metaforico altrove, lo sguardo che sorvola Napoli, le sue meraviglie e le sue miserie, la sua storia e la sua cultura, invita sempre e solo a dimenticare. A dimenticare l’immaginario noto, che confonde la realtà e mescola i piani, a dimenticare gli elogi dell’antropologia speciale (da Pasolini a De Crescenzo) perché “per tornare qui e per evitare la palude, bisogna distruggere il sentimentalismo, e la Napoli di una volta”. Salvo scoprire che la Napoli di una volta forse non c’è mai stata. Era un’invenzione pure quella. “Il tempo è il contrario di Napoli”, scrive Pascale, che dall’alto racconta i luoghi-mito, quelli meno noti e quelli delle occasioni perdute, preoccupandosi di cosa sarà della meravigliosa luce presente negli occhi di adolescenti di cui presto ci dimenticheremo. La Capria e Troisi sono le sue guide ideali nella battaglia contro l’accondiscendenza verso la tipicità. Ma pare di capire che Troisi ha perso la sua partita.

(uscito su Il Venerdì di Repubblica del 17 aprile)

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