giovedì 11 settembre 2014

Rione Traiano 1976-2014

La chiesa, al rione Traiano che ha ottantamila abitanti, funziona da sei anni. E' sorta al posto di una serie di "locali impropri" che venivano usati per le funzioni religiose. Una vita difficile fin dall'inizio. Il Traiano doveva essere un quartiere satellite nella zona flegrea a nord di Napoli ed invece è diventato un ghetto per le famiglie che hanno dovuto abbandonare i vicoli del "ventre molle" della città. La platea della parrocchia comprende impiegati, operai, muratori, ambulanti e dal 23 novembre '80 tre campi di terremotati divisi fra containers e prefabbricati pesanti. La malavita organizzata recluta qui manovalanza, diffusa è la droga. "Una forma di fuga dalla vita, un fatto esistenziale più che un traffico per guadagnare", precisa il parroco. (Ermanno Corsi, la Repubblica, 10 agosto 1984)

Il criterio con cui è stato sfruttato il rione Traiano si conferma così ogni giorno di più come l’esempio di come non si debba costruire un complesso popolare. E sono ancora una volta gli stessi abitanti che, di fronte ad uno stato di abbandono cui è stato lasciato il rione da venti anni, acquistano coscienza sempre maggiore della gravità della situazione. Intanto, la popolazione vive una situazione insostenibile. (Valeria Alinovi, l’Unità, 5 dicembre 1976)




La chiesa è diventata subito una debole struttura di fronte ai gravi problemi del quartiere. Le tensioni sociali le si scaricano addosso pesantemente. "Qui c'è il dramma della casa", dice don Antonio. "La coabitazione è una terribile necessità. Ci sono nuclei familiari di quattordici-quindici persone dove lavora, e a volte saltuariamente, solo il padre. La parrocchia può interessarsi poco a questo problema. Possiamo vedere per piccole sistemazioni di sopravvivenza come baby-sitter, assistenza agli ammalati, pulizia in qualche casa". Ragazzi, a piedi scalzi e seminudi per il caldo, eredi degli scugnizzi e degli sciuscià, attraversano di corsa la navata della chiesa. E' l'unico posto dove possono giocare all'ombra. (Ermanno Corsi, la Repubblica, 10 agosto 1984)

Un ragazzo di 11 anni, Fabio De Pandi, è rimasto ucciso accidentalmente da una pallottola "vagante" durante una sparatoria tra sconosciuti, nel rione Traiano. (La Stampa, 22 luglio 1991)

Il questore Vito Mattera non trova pace. "Vorrei tanto stringere il corpicino di quel bimbo caduto al rione Traiano. Da un mese non si sparava. Le cifre stavano cominciando a darci ragione, il mio piano anticrimine stava funzionando a pieno regime. E invece... basta un raptus criminale di un gruppo di balordi perché un lavoro metodico, continuo, vada in fumo. E adesso magari qualcuno dirà che a Napoli non si può andare in giro senza rischio...". (Giovanni Marino, la Repubblica, 23 luglio 1991)

Ma cos'è mai diventata Napoli? Che ne è dei napoletani: dico dello spirito, del carattere della città? E non per l'ultimo ragazzino ammazzato per caso, dalla pallottola vagante di un assassino maldestro. Queste ormai, si sa, sono storie che si ripetono, entrano nelle statistiche: quando l'orrore prende l'aspetto familiare del pane quotidiano. No: è accaduto dell'altro, intorno a quella morte, che merita di essere raccontato. Dopo il delitto, la solita televisione, con i soliti giornalisti, raggiunge il luogo, la strada, la povera scena del fatto; e tenta qualche intervista, al volo, alla gente del posto. Sempre le stesse domande, secondo un copione che sembra ormai un codice. Ma ecco che il filo dell'ovvio si spezza. Incredibilmente, nessuno vuol parlare, nessuno vuol essere coinvolto, nemmeno marginalmente. Come nel cuore della peggiore Sicilia mafiosa, o del più perduto Aspromonte - o come nel Bronx o in un ghetto di Chicago - lì, fra quartieri di Napoli che sono stati a lungo territorio di frontiera della lotta operaia contro lo scempio delle mani sulla città - Soccavo, il rione Traiano - adesso nessuno vuole nemmeno lontanamente essere scambiato per un possibile testimone, per uno che comunque possa aiutare, o abbia da dire qualcosa sul quel bambino ucciso. Perfino la più innocua e scontata delle domande - "ma qui come si vive?" - si spezza contro un muro di ostilità e di diffidenza. (Aldo Schiavone, la Repubblica, 27 luglio 1991)

Trenta anni fa al Rione Traiano sono state fatte le prove generali di quello che è poi successo a Scampia negli anni ’90: un distretto della droga. Il quartiere è un regalo della speculazione edilizia del secondo dopoguerra sotto la guida di Achille Lauro, il sindaco de "Le mani sulla città" di Francesco Rosi. Se si leggono le note di commento alla progettazione, si scopre che l’urbanizzazione di quella che una volta era una zona agricola, punteggiata da masserie alle porte di Pozzuoli, dovrebbe richiamare le periferie scandinave e le park-way statunitensi. Se si viene nella conca tra Fuorigrotta e Soccavo si scoprono palazzoni a parallelepipedo disposti in file regolari o in diagonale, attraversate da vialoni il cui unico scopo è rendere ancora più complicata la socialità, aumentando il senso di isolamento delle insule condominiali. Naturalmente ognuno fa come crede: c’è chi si tiene il marrone o il celeste che riveste i palazzi, preferendo l’anonimato generale, e chi si costruisce tettoie rustiche sul balcone sorrette da colonne rococò. La buona notizia per tutti è che c’è un sacco di spazio per parcheggiare. (Adriana Pollice, il Manifesto, 5 settembre 2014)

In Campania la delinquenza organizzata sta attraversando un particolare momento di transizione: è guerra aperta tra i pesci piccoli che hanno ambizione. Per guadagnare qualche gallone nelle hit dei clan i guaglioni sparano a più non posso. Lo ha spiegato ai magistrati anche l' ultimo pentito, Pasquale Frajese. Ha detto: "Più morti si fanno, meglio è. Dal numero degli omicidi si pesa l' importanza di un clan". Una filosofia pericolosissima, allucinante. E' con questi criminali che noi poliziotti di Napoli ci confrontiamo quotidianamente: per i killer anni Novanta uccidere un agente, un bambino, o un camorrista avversario non fa nessuna differenza". (Giovanni Marino, la Repubblica, 23 luglio 1991)

Il Rione Traiano, formalmente parte di Soccavo, a ridosso di Fuorigrotta, è un mondo a parte. Una Scampia, prima di Scampia e privata dello scenografico squallore post-pasolinano delle Vele. Palazzine basse rivestite di mattoni, dove riluce solo l'alluminio anodizzato. Vialoni pensati alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso da urbanisti che si ispiravano a città medievali, periferie scandinave le park-away americane. Un progetto ambizioso che, come sempre accade, calato a Napoli, diventa degrado, superfetazione. Ed è subito ghetto con spartitraffico di oleandri pieni di monnezza sfusa, edifici scrostati, bancarelle probabilmente abusive. Un paesaggio tipico della corona di spine napoletana, che si moltiplica come un in videogioco impazzito. I servizi pubblici, qui, sono al lumicino. Ci si muove con i bus e la Cumana. Quando passa. Mentre si aspetta la leggendaria stazione del metrò firmata da Anish Kapoor. (Pietro Treccagnoli, Il Mattino, 6 settembre 2014)

A otto anni stanchi della famiglia se ne sono andati via di casa. Per due, tre anni hanno vissuto alla stazione dormendo nei vagoni dei treni, rubando nei grandi magazzini, scippando borse, spacciando droga. Hanno trascorso la notte tra tossicodipendenti, prostitute e femminielli. Hanno passato il tempo facendo giochi d'azzardo. Poi hanno deciso di tornare a casa. Ciro, Gianfranco e Antonio con molta innocenza e qualche bugia ci hanno narrato la loro vita. E' un piccolo esercito senza futuro quello dei bambini devianti. Di loro si è parlato recentemente al convegno che si è tenuto a Castiglioncello.
Perché siete andati via di casa? Gianfranco: Non mi trovavo bene in famiglia. Stavamo al Rione Traiano, eravamo otto in una stanza, non c'era posto per dormire e a nove anni me ne sono andato.
I vostri genitori non vi hanno mai cercato? Gianfranco: Sì, venivano alla stazione, sono venuti anche i miei zii per portarmi via. Non volevano che facessi questa vita e mi picchiavano, ma io non volevo stare con loro, è gente andata di testa e me ne riscappavo.
Alla stazione eravate un gruppo solo di bambini? Ciro: Sì, c'era una comitiva, poi ci dividevamo in gruppi, il più grande era il capo, il nostro era Antonio. Lui decideva dove dovevamo andare e quello che c'era da fare. Avevamo fatto anche un giuramento, c'era un patto tra di noi: saremmo stati sempre insieme.
Come vivevate? Gianfranco: Dormivamo nei vagoni dei treni, poi ci lavavamo alle docce della stazione, per vestirci rubavamo i panni stesi nei vicoli, ci arrampicavamo per prenderli. Andavamo anche a rubare alla Standa e all'Upim.
Che cosa facevate durante la giornata? Ciro: Andavamo a strappare, a fare gli scippi.
(Marina Cavallieri, la Repubblica, 15 maggio 1990)

- Rione Traiano, non è una realtà facile. Non ha mai rischiato di prendere la cattiva strada?
"A me lo dice? Vengo da Traiano, ma ho avuto un padre eccezionale che mi ha dato una buona educazione. Gli sarò sempre grato.  (...) Ho comprato casa a Lignano e a Morena. Con la famiglia vorremmo vivere in Friuli per sempre". (Intervista di Francesco Velluzzi al calciatore Antonio Floro Flores, Gazzetta dello Sport, 22 ottobre 2011)

Perché poi avete deciso di tornare a casa? Antonio: Quando cresci incominci a pensare a quello che fai, alla stazione c'erano i drogati, le puttane. Una mia amica, la Veronese, è anche morta. Vedevi loro e capivi che più si andava avanti e più sarebbe stato peggio. Gianfranco: Faceva freddo alla stazione. Poi Antonio se ne è andato e altri sono tornati a casa. Adesso ho messo la testa a posto, sto in pace con la mia famiglia. Sono tornato a scuola, faccio la quinta elementare.
Come ti trovi? Gianfranco: Bene, sono il penultimo della classe. Ciro: Io adesso faccio la prima media. Abbiamo capito che non era giusto quello che facevamo. Abbiamo cominciato a pensare che se avessero scippato a nostra madre, che ha pochi soldi, ci sarebbe dispiaciuto.
Ma lo pensate veramente o ripetete delle cose che vi hanno detto? Gianfranco: No, le sentiamo dentro. Antonio: Abbiamo capito che era una vita sbagliata, nessuno nasce ladro, adesso siamo cresciuti, quelle erano cose da bambini. (Marina Cavallieri, la Repubblica, 15 maggio 1990)

I bambini sono costretti ancora oggi a giocare per le strade e vicino agli alvei, come il piccolo Enzo Coppola, che trovò la morte sotto una frana avvenuta nel ’68. La lotta del rione Traiano è quindi una lotta che ha alle spalle anni ed anni di sofferenze e uno stato di abbandono che, come sempre, colpiscono gli strati più poveri della popolazione. (Valeria Alinovi, l’Unità, 5 dicembre 1976)

C'è una città allo sbando, comatosa, luttuosa. Ci sono almeno due nuove generazioni cresciute all'ombra di faide, guerre e con gli spacciatori sotto casa. Davanti a loro non c'è nulla, il vuoto. Insomma, fare un giro di notte con chi capita è "normale". Le vite sono a perdere. (Arnaldo Capezzuto, Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2014)

Sono tantissimi gli adolescenti che vivono di illegalità, sono tantissimi gli adolescenti che prima di diventare maggiorenni hanno già la vita rovinata. "Je sò nato e sò cresciuto ind'a nu quartiere addò o arruobbi o spacci o te faje na pera" (sono nato in un quartiere dove o rubi o spacci o ti fai una pera di eroina) cantava Raiz negli anni '90 oggi ad esser cambiato è nulla o quasi. Quando le loro storie arrivano nei salotti buoni della città ci si commuove, ci si indigna, ma alla fine è lo sdegno di un momento, solo apparenza. La città non reagisce. Tutto sembra essere sempre in balia di polizie e giudici, nulla di quello che avviene sembra sfuggire al tanfo della corruzione e dello scambio. Questa era ed è oggi, ancora di più, Napoli. Questo è il clima in cui si vive, questo è un territorio dove tutto diventa impossibile. E dove il diritto non esiste, vince il più forte e dove vince il più forte, c'è guerra. (Roberto Saviano, la Repubblica, 6 settembre 2014)


Mamma Assunta e papà Armando, nell'80 (tre anni prima che nascesse) videro la casa distrutta dal terremoto. E al sisma seguì il calvario: gelida roulotte nella Mostra d'Oltremare, appartamento poi di fortuna a Secondigliano prima di tornare al Rione Traiano. E il papà a faticare come operaio in un' azienda di pellami: lavoro duro, esalazioni di coloranti e additivi chimici da respirare, le rughe e gli acciacchi che si moltiplicano. Antonio (Floro Flores), appena ha potuto, gli ha "imposto" la pensione. "Più o meno è così. Gli ingaggi da professionista mi hanno permesso di farlo riposare". (Gaetano Imparato, Gazzetta dello sport, 2 marzo 2005)

A Traiano (30 mila abitanti) non c’è un solo cinema. In tutta Soccavo (80mila abitanti) non c’è alcuna struttura sociale. Le aree verdi si contano sulla punta delle dita. Quello che manca dunque non è solo il lavoto; un lavoro stabile, sicuro, dignitoso. Manca di tutto e in primo luogo la casa. (m. dm., l'Unità, 29 settembre 1978)

Il quartiere Traiano è pieno di buoni cittadini. S’alzano la mattina e vanno a lavorare o a cercare lavoro. Nonostante tutto. Un eroismo silente e quotidiano, che è difficile dire quanto costi e capire lontano da questa città.  Se si percorre il viale principale, da un lato c’è l’Università, da oltre vent’anni animata dai ragazzi delle facoltà scientifiche che arrivano da ogni dove. Come dappertutto: studio, speranze, prospettive costruite con cura e dedizione. Dall’altro lato c’è un muro che delimita un rione – o’ rione - che da decenni è fuori dalla legge, luogo ora di arroccamento ora di contesa tra bande camorriste che muovono milioni e milioni nel traffico di coca e di altro. Tutto il più grande rione è affaticato da questa enclave che lo condiziona nelle attese, negli sguardi, nelle paure e nelle speranze. E’ come in guerra. (Marco Rossi-Doria, la Stampa, 7 settembre 2014)

Dentro una città dai mille problemi un quartiere disgregato e dentro questo quartiere un rione che a 17 anni è già vecchio, debole, malato. La storia di rione Traiano e di Soccavo è tutta qui. In questa zona ogni problema diventa subito un dramma, un ostacolo insormontabile. Traiano doveva essere, nelle intenzioni di chi lo progettò, un rione modello. È diventato, invece, il simbolo dell’abbandono. Qui non si vive. Si dorme - dice il compagno Giuseppe Antonini, operaio dell’Italsider. (m. dm., l'Unità, 29 settembre 1978)

Se si gira per i cosiddetti quartieri spagnoli, per Rione Traiano, per Monteruscello, per Barra o Ponticelli, non solo la povertà endemica ma l'assenza quasi totale di qualsiasi "servizio" degno di questo nome è qualcosa che stringe il cuore. E si tratta di zone nelle quali vive la grande maggioranza della popolazione napoletana. E' vero, son zone nelle quali la camorra e la piccola criminalità organizzata sono sempre state assai radicate. Ma questo è un prodotto, non la causa del degrado. E' anche vero, però, che nei decenni passati in molti di questi quartieri la sinistra è stata forte e la partecipazione alla vita democratica è stata ampia. Adesso sono il regno della frustrazione e della delusione. Nulla in effetti nella vita di coloro che vi abitano è cambiato, se non in peggio. (Alberto Jacoviello, la Repubblica, 28 settembre 1993)

Immaginate la tensione che si vive in un territorio come questo? Qui ogni leggerezza ti condanna a morte, un'amicizia sbagliata ti segna per sempre, persino camminare a fianco a chi in quel momento è nel mirino può essere fatale. Davide Bifolco è morto a 17 anni per aver commesso una serie di leggerezze, era alla guida di un motorino su cui viaggiavano in tre, non si è fermato all'alt per paura perché non aveva assicurazione e patentino, era insieme a due ragazzi non incensurati, ma a Davide non è stata data una seconda possibilità. Questo accade dove c'è guerra perenne, non ti va bene mai, non esistono seconde possibilità. Un errore ti marchia a vita o ti uccide. [Roberto Saviano, la Repubblica, 6 settembre 2014)

Quando entrò nella "famiglia" di Rione Traiano diventando la compagna del boss Mario Perrella, invece di un anello o di un collier, ebbe in regalo una pistola. Con l'arma in pugno, Cristina Pinto ha partecipato almeno a tre agguati, ha organizzato le spedizioni contro i nemici del suo temutissimo amante, ha procurato altre armi, ha curato per il suo uomo la base logistica di alcuni dei più cruenti attentati di camorra. E' la prima donna killer di Malanapoli. (Stella Cervasio, la Repubblica, 19 giugno 1992)

Il quartiere è stato messo su dall’Istituto case popo­lari, ma ci hanno fatto affari i principali costruttori e ingegneri attivi negli anni ’50 e ’60. Le case erano destinato agli abitanti della baraccopoli di via Marina, zona pesantemente bombardata durante la Seconda guerra mondiale perché vicina al porto, dislocati al capo opposto di Napoli senza alcuna attività che creasse un collegamento con il tessuto cittadino. La mazzata finale arriva con il dopoterremoto e una seconda ondata di trasferimenti forzati dai Quartieri spagnoli e da piazza Mercato. Molti, vista la disponibilità di vani, cominciarono a occupare abusivamente, ricreando le dinamiche familiari, a volte malavitose, del centro storico. (Adriana Pollice, il Manifesto, 5 settembre 2014)

Da qui verso occidente, c’è l’enorme spazio vuoto dall’Ilva dismessa, mai sostituita. Uno spazio che attende nuove forme di sviluppo da decenni. Chi è entrato nel quartiere appena costruito cinquant’anni fa, la aveva lì davanti e, poi, le altre fabbriche e l’indotto. Quando tutto è finito, a differenza che a Torino, non è successo nulla: nessun visione di rinascita né piano strategico attuato ma montagne promesse disattese. E’ devastante per le attese di chi cresce lì e per quelle della città. Così, due generazioni sono restate in attesa. E intanto, tutto intorno, la vita ha preso le vie che ha potuto, dall’inventarsi il lavoro nonostante tutto all’emigrare come fecero i nonni a resistere al degrado a essere troppo vicini ai cattivi richiami.
Crescere è difficile in questi luoghi. Educare pure. Vi sono aree di rischio, esperienze e momenti nella vita di chi cresce che sono immersi in una zona grigia. Si prova a studiare ma ci sono anche altre sirene che distraggono e chiamano. Il tempo si riempie di occasioni. Ce ne sono di buone. La scuola. Le palestre. I campi di calcio. Gli zii o gli amici più grandi che s’inventano un lavoro o continuano a studiare nonostante non vi sia formazione professionale né un mercato del lavoro, da ben prima di questa crisi. Ma non è difficile perdersi, prendere abitudini rischiose o vie cattive, a volte per uscirne a volte no. E’ in questo paesaggio complesso e condizionato che tutto accade…
(Marco Rossi-Doria, la Stampa, 7 settembre 2014)

Napoli è una città che contiene almeno altre venti città dove i carabinieri sono stranieri, persone non grate, cittadini di un altro Stato senza visto d’ingresso. L’appuntato ascolta il lungo rosario e annuisce, ogni tanto corregge, precisa, conosce a memoria quei nomi. "Per voi ci sono solo Scampia e Secondigliano, da giovedì notte forse anche rione Traiano. Ma ci sono posti anche peggiori. C’è il rione Luzzatti a Gianturco, appena dietro il centro direzionale dove ci sono gli uffici della procura, c’è il rione Amicizia alla Doganella, che se entri con l’auto dopo puoi uscire solo in retromarcia. E poi il Bisignano a Barra, Pazzigno a San Giovanni a Teduccio. Ci andiamo qualche volta quando si fanno i pattuglioni, ma garantire una presenza costante è quasi impossibile. Non è paura, ma semplice buon senso. Pochi contro tanti, una questione di inferiorità numerica. E appena ti vedono non ti fanno certo le feste". (Marco Imarisio, Corriere della sera, 7 settembre 2014)

Quando a Scampia lo spaccio si ferma per le retate, cresce lo smercio al Rione Traiano. Quando gioca il Napoli nel vicinissimo stadio San Paolo le vendite si moltiplicano: in molti passano a prendere una stecca di fumo prima di raggiungere gli spalti. Il sistema di vedette e controlli è lo stesso di Napoli est ma qui l’hanno messo a punto prima. Nessuno entra senza essere notato. L’attività raggiunge l’apice la notte. Per l’azione di contrasto c’è una sola volante della polizia che dovrebbe coprire Soccavo, Fuorigrotta, il Rione Traiano, il Parco San Paolo e magari anche Pianura. «Il fumo lo vendono dappertutto, nei bassi, sulla strada — racconta Riccardo, quarantenne senza lavoro -. Quando ero ragazzino c’era ’onna Maria. Vendeva abusivamente nel suo basso bibite, patatine, caramelle. La sera dicevi “onna Marì una cocacola” e quella ti passava la lattina con, sotto, la stecca di fumo. L’eroina però se eri minorenne non te la vendeva. Se andavi in farmacia di notte era pieno di eroinomani in fila per le siringhe e l’acqua ossigenata. Si andavano a fare dietro al campetto». Il campetto è la pista pubblica di atletica, calcetto e basket del quartiere, di giorno è piena di famiglie e ragazzi che si allenano. Un tesoro che nessuno vandalizza. (Adriana Pollice, il Manifesto, 5 settembre 2014)

Adesso anche l'Italia ha la sua Ferguson, anzi peggio, perché in questo caso non c'era stata nemmeno una ipotesi di rapina. Questa è Napoli, terra di guerra. Questo è il Sud. E rende ancora più grave ciò che è accaduto solo qualche settimana fa quando il primo ministro Renzi è stato in Campania e non ha posto alcun accento sulla centralità del contrasto alla camorra, e quando è stato in Calabria alla 'ndrangheta, in una sorta di timore che parlare di questi problemi spenga la voglia di rinascita. (Roberto Saviano, la Repubblica, 6 settembre 2014)

La situazione è dunque preoccupante, troppi sono i segni di una progressiva emarginazione dell’intero quartiere, ma con questa realtà i comunisti vogliono continuare a lavorare, senza abdicare alle responsabilità del partito che qui ha raccolto più voti degli altri (52 per cento alle politiche). (m. dm., l'Unità, 29 settembre 1978)

Intorno all’università la vivibilità è migliore ma il Rione Traiano resta chiuso nel suo ghetto. Il segno più forte della sua emarginazione, forse, è la cancellazione della linea metropolitana che avrebbe dovuto collegarlo al resto delle linee su ferro. L’unico tratto cancellato dall’amministrazione di Stefano Caldoro dal megaprogetto di trasporto metropolitano avviato da Antonio Bassolino. (Adriana Pollice, il Manifesto, 5 settembre 2014)

Il nuovo carattere di Napoli è la piena omologazione all'aspetto più desolato dei tempi. Là dove prima vi erano strati di preziose diversità mentali, e particolarità cariche di ricchezza, ora c'è solo un uniformarsi basso e modesto: con qualche traccia imbellettata di vecchio plebeismo. Su tutto è passata la scopa della storia. Se sopravvivono tratti di differenza, essi sono soltanto nelle cose, nella fragilità dei rapporti di produzione, nella peculiare precarietà e distorsione del "modello di sviluppo": non più nella cultura e nel sentire della gente, nelle loro domande e bisogni e tipi di vita. (Aldo Schiavone, la Repubblica, 27 luglio 1991)

Il tratto specificamente napoletano di questa tragedia non è il fatto che forzare un posto di blocco in un quartiere periferico, ad alta tensione, rappresenta un comportamento rischioso. Il tratto specificamente napoletano è che, parlando di questo fatto, nessuno appare più in grado di cogliere l'assurdità del fatto stesso. Forse è normale che un adolscente faccia delle scemenze ed è terribile naturalmente che appunto delle scemenze debbano essere pagate con la vita. E' assurdo tuttavia che si voglia cogliere in questo l'espressione di un conflitto e dunque la sua legittimità. (Adolfo Scotto di Luzio, Il Corriere del mezzogiorno, 9 settembre 2014)
 
"Gridiamo all'allarme solo quando veniamo svegliati da una morte innocente".
- Maurizio Braucci, cosa significa?
"A volte guardo il teatrino stucchevole e triste delle reazioni che seguono a questi eventi, e mi torna in mente il volatile di quella favola indiana. L'uccello di notte soffriva atrocemente per il gelo, e pensava: domani costruirò un nido forte. L'indomani splendeva il sole e dimenticava la cosa giusta da fare. Andava dritto e vulnerabile, fino a farsi svegliare dal nuovo gelo". (Intervista di Conchita Sannino a Maurizio Braucci, la Repubblica, 7 settembre 2014)

(foto tratta da cyopekaf.org)

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