giovedì 25 aprile 2013

Il Toro non può perdere

Quando lo scudetto era ancora un sogno per tutti, il pallone passava dai piedi enormi di Eraldo Pecci. Le doghe di fratel Grasso, come scriveva Gianni Brera. Ingenuo e sentimentale era quel calcio in cui si scendeva in campo dopo aver mangiato riso alla parmigiana e filetto di manzo. «L'aria del derby era bellissima». Toro-Juve valeva un campionato, e quella volta finì come dopo mai più. Quella volta significa stagione '75/76, l' ultimo titolo italiano di color granata. Cinque punti di svantaggio rimontati in 3 giornate (ogni vittoria all'epoca ne assegnava due), due derby su due vinti, una squadra che tornava a fare festa 27 anni dopo Superga. Non una squadra, un mondo. Perché il Toro è la sua gente, «non è piagnucolosa rievocazione ma cultura della memoria», per questo motivo Pecci ha messo in fila i ricordi di quell'anno in un libro, "Il Toro non può perdere" (Rizzoli). Lui, ventenne, appena arrivato dal Bologna con qualche nostalgia iniziale, figlio di comunisti nella città della Fiat, infuriato col "compagno" Sollier perché il Perugia aveva battuto il Toro operaio facendo il gioco dei padroni.
Il racconto di un'impresa forse irripetibile e dei suoi umili compagni di strada. L'autista "Barba" che dorme con un pitone. La tifosa "Bagna Cauda" che s'affaccia al balcone al passaggio del pullman. Il magazziniere Brunetto che fa i traslochi con un furgone intestato a Gianni Agnelli. In quel Torino, Pecci arriva che è militare. Bersagliere. Il capitano una volta gli chiede il favore di entrare in campo portando il cappello con la piuma. Va in ritiro con la squadra dopo aver scoperto la fidanzata con un altro. «Ero al Toro da due ore e già avevo le corna». Perché Pecci le cose le racconta così: «Avvisai Radice che a Como non riuscivo a dormire, perché sopra c' era Chiasso». Abitava nella casa che era stata di Bearzot, un giorno il ct gli chiese se nel mobile bar ci fossero ancora quelle ciliegie sotto spirito. C'erano. Per dire cos'era il calcio: quel Torino vinse lo scudetto avendo in sede solo due linee telefoniche. Potenziato il centralino, lo scudetto non s'è visto più. «Un segno, forse, che i poveri devono stare nei loro stracci». Essere del Toro nella città della Juve significa accettare l'idea che «per tutti gli anni '70, e metà anni '80, le regole le facevano loro davvero. Se arrivavi in volata con la Juve non c'era verso di vincere un titolo». Significa sapere che «se avessimo conquistato 59 punti, qualcuno ne avrebbe fatti 60». L' anno dopo: 50 su 60 per il Torino, la Juve 51. Eppure, si poteva giocare a scopone con "i gobbi", i "rigatini" Zoff e Scirea, quasi amici. Si poteva incontrare l'Avvocato e restarne abbagliati, al punto che «la mia Fiat 125 color testa di moro, quel giorno, mi sembrò una macchina migliore». Ma il Toro non può perdere «perché non è una cosa terrena», «può subire cattiverie e valanghe di gol, anche nei derby, ma non può perdere». Oggi Pecci ha 58 anni e vive a Riccione.È nel settore immobiliare con un cugino. Guarda il calcio da lontano, ha fatto l'opinionista tv. Al telefono dice: «In tv mi sono divertito, adesso si prendono tutti sul serio. Non c'è un allenatore che faccia una battuta, tutti a dire eh, l'arbitro, il rigore. Allo stadio vado poco, quando non c'è confusione, più per un Torino-Bologna che per un Milan-Juve. Il derby no, il derby lo guarderò in tv. Così se non mi piace cambio canale».

(Repubblica, 24 aprile 2013)

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