lunedì 28 maggio 2018

La Juventus e il calcio delle oligarchie

Dopo quattro anni Milano torna in Champions con l'Inter, riprendendo faticosamente la scia di chi nel frattempo ha marciato a un'altra velocità. Il calcio delle oligarchie non aspetta. Rimanere esclusi dal bancomat dei diritti tv su scala europea produce lunghe ricadute nel cortile di casa. Suning voleva riscrivere gli equilibri e non c'era ancora riuscito. La proprietà del Milan resta un mistero, nel disinteresse di Covisoc e Figc. Così la serie A campicchia di realtà pulviscolari. Nessuno sa perché il Genoa incassi e non spenda, dove siano gli investimenti promessi da Saputo a Bologna, che fine abbia fatto l'energia iniziale dei Della Valle a Firenze, che progetti di sviluppo abbia Cairo per il Torino.
Di questo antagonismo spento dovrebbe discutere il calcio italiano. Perciò di egemonia juventina si parlava qui sette giorni fa, generando repliche di tenore vario su social e altri media.


Sabato Sport Week ricordava che la Juve ha giocato in sette anni 16 partite contro squadre staccate di almeno 50 punti. Una egemonia non è solo dominio tecnico. È una supremazia anche politica e culturale. Fino a dieci anni fa la Germania aveva il Bayern più un'alternanza di vincitori, tanto da produrre il Borussia di Klopp finalista in Champions. Ora che il bancomat ha allargato la forbice con la Baviera, partorendo un anno grigio dei tedeschi in Europa, la Bundesliga s'è messa a ragionare su un cambiamento delle regole nella proprietà dei club, dove il 50%+1 appartiene ai tifosi. Si sono chiesti se non sia questo modello la causa di scarsi investimenti, di una riduzione di competitività con l'esterno e di gerarchie immobili all'interno. Non hanno scrollato le spalle o riso. Ne hanno discusso. Perché credono che la mancanza di concorrenza sia una faccenda seria che riguarda tutti. Allargare lo spettro dei contendenti è l'obiettivo di chi governa Nba, MotoGp, Formula 1. Non si vende una serie tv con lo spoiler.

In Spagna esiste un duopolio. Ma un duopolio è già preferibile a una dittatura. È una rivalità. Il lubrificante dello sport. Il tennis è popolare perché accanto al sublime Federer esiste il diabolico Nadal. Barcellona-Real, o Messi-Ronaldo, ha consentito alla Liga di stravendere all'estero i propri diritti tv. La Spagna ha vinto 12 coppe europee delle ultime 13 con quattro squadre, non una, segno di un'espansione. L'Atlético del 2006 era ancora "la squadra dei materassai", con uno stadio in cui bisognava attraversare il prato per raggiungere gli spogliatoi dalla tribuna. Oggi ne ha uno nuovo. Se i club non riempiono i posti, la Liga decurta i proventi tv. C'è un governo che contrasta il sottosviluppo complessivo. Con le squadre B, per esempio. Ora arrivano anche da noi, ma dopo anni di dibattiti sta nascendo un moscerino. Se ne avremo solo due, a chi saranno servite? A un movimento e alla Nazionale, o solo a due club?

I meriti della Juve per essersi tirata fuori dal fosso di Calciopoli sono indiscutibili. I suoi 7 scudetti leggendari. Il punto è un altro: l'uso che si fa dei propri poteri. Se dopo un rigore subito al 90' contro un club più influente, il tuo futuro capitano mima il fruscio dei soldi, non si può pretendere che questo veleno resti fuori dal dibattito pubblico quando un arbitro sbaglierà in favore tuo. Fa parte del gioco controllare il mercato affinché le rivali incontrino ostacoli nel rinforzarsi. Ma resta un esercizio di potere. Essere potenti non è una vergogna. Basta non negare di esserlo. Come Umberto Eco diceva di Superman in Apocalittici e integrati, non si chiede conto all'eroe di quel che fa, ma di quel che non ha mai avuto intenzione di fare, di un potere usato per conservare il mondo com'è e non per cambiarlo, un mondo in cui il male si configura come un'offesa e il bene come una carità. Qui risiedono le responsabilità della Juve, come si scriveva sette giorni fa. Poteva mettersi alla testa dei riformatori e fare da locomotiva alla serie A anziché esercitare a Smallville.

Agnelli lo prometteva. Poi ha scelto di sostenere il ticket Tavecchio-Uva, firmando un accordicchio con Lotito per scalare l'Eca e guadagnare peso in Uefa e Fifa. La Juve avrebbe in Marotta un dirigente serio da offrire al sistema, ma se Marotta indica alle telecamere il numero 36 sulle etichette dello spumante nel cuore della sua festa, come potrà ambire a una poltrona nella Federcalcio di tutti, che con le sue sentenze ha stabilito in 34 il numero degli scudetti? Portando il 4 giugno di nuovo l'Italia nello stadio che rivendica quei titoli revocati, la Figc si espone a una accusa di subalternità.

Questo alla fine fa un'egemonia. In un quadro diffuso di inopportunità. Era inopportuno Tavecchio quando da presidente Figc sosteneva che la Champions avesse bisogno di Milano, pazienza per Bergamo o Roma. È inopportuno il procuratore Pecoraro quando da Marzullo sussurra il suo tifo per il Napoli dopo aver processato Agnelli e la Juve per la 'ndrangheta nelle curve, rendendo viziata l'aria intorno a ogni inchiesta futura sul Napoli e le sue avversarie. È inopportuno Malagò che accelera un vuoto di potere per riempirlo poi di sé e degli uomini a lui vicini, mettendosi alla guida della Lega e facendosi fotografare in famiglia con la maglia della Roma sulle gambe. Ognuno scelga il grado di sconvenienza che preferisce. Ma il calcio italiano è questo. Ha scelto di sopravvivere eliminando il confine fra virtuosi e peccatori.

(la Repubblica, 21 maggio 2018)

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