venerdì 6 marzo 2015

L'ispirazione non arriva in casa


Quella storia degli artisti che se ne stanno in giro di notte e poi si alzano tardi, ecco, lasciatela perdere. A New York sono le dieci del mattino, negli uffici della Pickled Punk Pictures il lavoro di Paul Haggis comincia presto. È al montaggio: Hbo sta per lanciare “Show me a hero”, serie di sei ore da lui diretta e scritta da David Simon (“The Wire”), con Oscar Isaac, Jim Belushi, Catherine Keener e Winona Ryder. Dieci anni fa, al suo debutto da regista, Paul Haggis vinceva due Oscar con “Crash”, miglior film e migliore sceneggiatura. Da allora ha messo tanta Italia dentro il suo cammino. Ha scritto il remake de “L’ultimo bacio” di Muccino, ha lasciato che in “Casino Royale” Venezia facesse venire a James Bond la tentazione di lasciare lo spionaggio, a Roma e a Taranto ha ambientato e girato il suo ultimo film “Third person”, con una colonna sonora che più italiana non poteva essere (Antonacci, Gigi D’Alessio, la Tatangelo), dice, e ne ride, visto che ha già le valigie pronte per volare a Roma nelle prossime settimane.
Dal 10 al 14 marzo terrà un seminario su scrittura, regia e recitazione, dirigendo in scena dodici coppie di attori davanti a direttori del casting, agenti e produttori: una iniziativa della società “Hollywood in Rome” per il teatro Golden di Andrea Maia e i suoi laboratori didattici diretti da Laura Ruocco. Il compenso andrà a sostegno delle campagne di Apj, Artists for Peace and Justice, che lavora per l’emancipazione delle comunità povere. Haggis ha iniziato a impegnarsi quando ha scoperto che Haiti, un’ora di volo dagli Usa, non aveva licei per i ragazzi dei bassifondi. Le prime scuole sono già state costruite.
Nei panni del maestro romano, a Haggis vengono in mente prima di tutto le suore. Le regole del sovvertimento degli schemi deve averle imparate lì, da alunno abbastanza turbolento. "Dentro di te devi prima avere un dono. Se non c’è il talento, cosa credi che qualcuno ti possa insegnare? Il talento vero, dico, non l’ego. Per questo prima ancora di sentirsi bravi, bisogna sentirsi fortunati". Per fuggire dall’idea che l’ispirazione arrivi in qualche modo, con gli occhi verso l’alto, puntati contro il soffitto bianco, per anni Haggis non ha mai scritto in casa. "Mi sento più sicuro, più tranquillo. Così sono in compagnia dei miei personaggi quando prendono forma". Haggis ha scoperto il suo talento attraverso i fumetti. Kathy, la sorella di Paul, voleva diventare attrice. Nella London degli anni ’60, la London canadese in Ontario, non c’erano teatri. Il tempo ne ha fatto la città di Justin Bieber, e pazienza. Ma all’epoca il papà di Haggis, che costruiva strade, scoprì una chiesa battista prima convertita in una discoteca e poi distrutta da un incendio. Ne fece un piccolo teatro da cento posti. Il sabato dopo mezzanotte e la domenica pomeriggio si proiettavano film. L’attrazione fra Paul e l’Italia è cominciata in questo modo, spiega. "Quella sala, con Hitchcock e Godard, proiettava anche Pasolini", dice Haggis, "l’Italia ha dato al cinema una serie di registi straordinari. Antonioni è certamente tra le mie fonti d’ispirazione, poi Rossellini, e De Sica, certo. Del cinema italiano di oggi mi piacciono in modo particolare i lavori di Tornatore e Castellitto. Ho molto amato l’anno scorso “La Grande Bellezza”. Mi è dispiaciuto che quest’anno non ci fosse nella cinquina un film italiano". Dalla corsa all’Oscar è rimasto escluso “Il capitale umano” di Virzì, che peraltro ha una costruzione assai vicina allo stile di “Crash”. 

Haggis è uomo di finissima ironia. Gli stereotipi sull’Italia erano tutti ben presenti ad Haggis, al momento di cominciare a girare da noi “Third person”. È convinzione di Haggis che un set debba avere un clima sereno e che gli attori vadano ascoltati: se vogliono cancellare una frase, forse hanno ragione loro. “Gli attori sono uguali in ogni posto del mondo. Degli italiani mi piace in genere il loro profilo leggero, la vena comica, quel registro con cui inseguono il divertimento, e come sanno riprodurlo. Nel mio ultimo film, per esempio, Riccardo Scamarcio era perfetto per il suo ruolo. È stato l’italiano ideale in quella situazione. Ho il vantaggio di conoscere i meccanismi della scrittura e quelli della sua interpretazione. Un testo nasce per essere tradito. Il lavoro di uno sceneggiatore è fermo sulla pagina, una pagina può essere tutto o niente, sono i registi e gli attori a farla diventare un pezzo di vita, a renderla credibile, a fare in modo che ciascuno di noi possa riconoscersi. Uno sceneggiatore deve lavorare abituandosi all’idea che la sua scena preferita possa alla fine restare fuori dal film. Io adoro la possibilità che i miei personaggi abbiano la loro dose di libertà, anche se per fortuna i miei copioni sono sempre stati molto rispettati durante le riprese. Casomai, il problema relativo alla mia doppia natura di sceneggiatore e regista è un altro. Mi accorgo che mi piacerebbe sempre essere ciò che in quel momento non sono: avere scritto quando dirigo o dirigere quando ho scritto".

Haggis ha inventato il Frankie Dunn di Eastwood (“Chiunque al mondo può perdere un incontro”, Million Dollar Baby) e ha reinventato James Bond per la faccia di Daniel Craig. Solo una cosa Haggis esclude. Un romanzo. Un film maker è una figura più simile a un architetto che a un narratore. "Li invidio i narratori, la mia natura è diversa. Con questo non voglio dire che altri debbano negarsi questa opportunità. In giro ce ne sono di persone creative, non vedo motivi per cui dovrebbero limitarsi. Prendiamo George Clooney: è un grande attore ed è un regista fantastico. La stessa cosa vale per Clint Eastwood, il quale a sua volta è anche un bravo musicista. Non tutto si può imparare. Ma io nei bar, a catturare le voci e la vita reale, ci sto benissimo”.

(Il Venerdì, 27 febbraio 2015)

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