martedì 7 ottobre 2014

Allegri e Sacchi nel club degli allenatori nemici


CI SONO serate in cui davanti alla telecamera ti fanno sentire Udo Lattek. Quanto sei bravo, ma no sei bravo tu, hai detto tutto benissimo, macché tu più di me. E poi arrivano le serate in cui Max Allegri incrocia Arrigo Sacchi. Allora chiude gli occhi e gli passa la vita davanti, i quattro anni da milanista, pieni pieni di consigli che Berlusconi gli somministrava prima e dopo i pasti. Ora, sarà che le due sagome gli si confondono tra i pensieri, sarà che gli salgono alle labbra quelle parole che a Milanello non ha detto, ma succede che un fruscio dallo studio, un distinguo, passa per il rumore dei nemici e oplà, ci scappa il litigio. Addirittura due in una settimana, il primo in Coppa e il secondo in campionato, roba che ci sarebbe da invocare il turnover e poi puntare dritti al Triplete.
È il fascino della diretta, così si diceva quando il bisticcio era un'eccezione. Gli allenatori andavano in campo con la tuta, al massimo con un cappotto di cammello, mentre in tv Ugo Zatterin dava la parola ai politici uno alla volta. Quei tempi lì. Poi in tv sono arrivati i talk show e sulle panchine, dentro gli stadi, i gestori di risorse umane, i comunicatori, gli psicologi. Corto circuito. Soprattutto quando a fare le domande sono colleghi, vecchi amici, amici degli amici, e da loro ti aspetti un trattamento di favore. Invece no, invece ti tocca Arrigo. Con la sua idea rigorosa di calcio che è pure un'idea della vita, un'idea dell'Italia e della sua storia, con la sua convinzione che un Paese giochi proprio come è abituato ad amministrarsi. Chi ha parlato ancora ieri con Sacchi, amareggiato, ha colto la sua delusione, si direbbe la consapevolezza di una resa, la coscienza di aver vissuto una parabola unica dal seme sterile. Se fa un bilancio del nostro calcio, finisce spesso per parlare delle guerre d'Italia condotte in retroguardia, dalla trincea, cita Churchill, sottolinea che in inglese non c'è una parola analoga per il nostro aggettivo "furbo". Di questo vorrebbe discutere in tv, dei perversi meccanismi per cui conta solo la vittoria. E invece. «Arrigo, io e te non siamo mai d'accordo», gli fa Max, e nella sua voce Sacchi avverte l'eco dell'intero calcio italiano. Battibecchi ne abbiamo visti, ma questo è uno scontro di ideologie. Cominciò Agroppi, prima con Lippi («Alla Carrarese correva per farsi intervistare ») e dopo con Mancini che gli diede del professorino invidioso: «Fallito io perché non ho vinto due scudetti di cartone? Meglio fallito che raccomandato». Mancini del resto non è tipo che si nasconda: «Io e Capello ci stiamo antipatici». Con Capello, a sua volta, s'è beccato parecchio pure Conte, toccando fili scoperti di casa Juve: «Dei suoi anni ricordo poco gioco e due scudetti revocati ». Ciro Ferrara perse la pazienza («Stai zitto, fenomeno») con Gigi Maifredi, l'allenatore che prometteva una Juve champagne e si accontentò dell'idrolitina. Non sempre si litiga per il pallone. Da allenatore della Ternana, Cuccureddu raccontò di invidiare al più anziano Ulivieri la sua esperienza. E Ulivieri gli mandò a dire che così era troppo comodo, che nella vita non si può avere tutto, o hai l'esperienza o la virilità. Suppergiù. Helenio Herrera stuzzicava Oronzo Pugliese. Una volta all'hotel Gallia fece finta di scambiarlo per un cameriere. Ma tra tutti il re resta Mourinho. Ha una galleria fitta di litigi. Guardiola: «Se ami quello che fai, non perdi i capelli». Zeman: «Chi è? Non lo conosco. Lo cerco su Google». Spalletti: «Parla sempre». Ranieri: «Si annoia con me? Non conosco la noia di Ranieri, conosco la nausea di Sartre». Fino al dito nell'occhio di Vilanova e agli spintoni di ieri con Wenger. E se José non vi piace, pazienza. Vi dirà che «neanche Gesù piaceva a tutti». Figuriamoci Sacchi.

(la Repubblica, 6 ottobre 2014)

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