martedì 26 aprile 2016

Il cinghiale che uccise Liberty Valance

Eravamo rimasti al tonno di Bacchelli, ai corvi al rospo e al porco delle Favole della dittatura di Sciascia, ai pesci rossi di Cecchi. Quando nella letteratura italiana gli animali parlano, si muovono di solito nel territorio di un genere, gli exempla morali di Esopo. Ora arriva un cinghiale a mutare la scena, si chiama Apperbohr ed è più surreale finanche di quel grillo che comunicava con un burattino di legno. Vaga con il suo branco nelle campagne dell'immaginaria Corsignano, fra Umbria e Toscana, dove s'imbatte in una folla di personaggi teneri e grotteschi, infidi e indifesi, di cui non si può tenere il conto, anzi non si deve, questo è il bello, il bello è perdersi. Teorizzatore di una letteratura che sia allo stesso tempo «commovente e inadeguata, raffazzonata e ingombrante», Giordano Meacci scrive in piena coerenza Il cinghiale che uccise Liberty Valance".


Ingombrante è il suo romanzo, l'opera italiana recente più imparentata con l'Underworld di DeLillo, un posto in cui possono stare insieme Bud Spencer, i Baustelle, il Siena Calcio, Nietzsche, le Crociate e perfino l'ispettore Manetta, chi se lo ricordava più l'ispettore Manetta, l'assistente del commissario Basettoni. Meacci è romano, 45 anni, ed è uno della "banda Caligari", fra gli sceneggiatori di Non essere cattivo. Non c'è pagina in cui non si veda. Sfoggia una potentissima scrittura per immagini e una serie di riferimenti cinefili, a partire dal titolo, esibiti o nascosti, per costruire un ambiente che può dirsi di commedia all'italiana, ma senza concessioni, con uno sguardo alla Marco Ferreri. Il cinghiale Apperbohr attraversa questa galleria di figure e trame spacchettate, trafitto da un raggio di luce (uscito dalla tv), da quel momento conquistando facoltà di pensiero, commuovendosi per la musica, scoprendo la capacità di comprendere la lingua degli uomini (gli «Alti sulle Zampe »), ma soprattutto avendo percezione di sé e consapevolezza della morte. Non è più solo un cinghiale ma non è del tutto uomo. La coscienza fa penetrare misteri ma alla fine ti lascia solo, e da soli si fanno le scelte. Dire polifonia per questo romanzo è poco. Meacci innesta il parlato locale nell'italiano standard, sempre che possa dirsi standard una scrittura in cui spesso le sdrucciole portano l'accento grafico (rigùrgito, spàzzola, bàndolo), le parole si fondono (tornotorno, senzatregua, filodiscozia) e gli «zoccoli sgricciolano» tra una «falda stazzonata» e un «faro di smalto». In più c'è il cinghialese, lingua biologica di Apperbohr, con tanto di dizionario e grammatica in postfazione. «Quando le parole non ci sono bisogna trovarle, masticarle come se fossero ossa di cervo da spolpare, e se al dio delle parole non va bene allora che si perda, che mi perda». Prendetevi cinquanta pagine per entrare a Corsignano e non c'è più verso di volerne uscire. Meacci crea situazioni comiche e liriche, descrive benissimo odori e orge, mescola la sintassi delle forze dell'ordine a quella dei copioni cinematografici, usa una punteggiatura dissidente, inventa nomi azzeccati — il carabiniere Venanzio De Zan, il linguista Rodrigo Galderisi Stocchi — in una continua compresenza di tempi, «in una infinità di universi», perché «il futuro non si prevede, o si aspetta, semplicemente c'è, e coincide con il presente». Una riflessione filosofica sull'uomo, sulla coppia, sull'amore, un'indagine sulla identità e sul genere, di quella che ossessionò Gaber e Luperini. «Se si potesse dire amore in cinghialese: se si potesse dire amore in qualsiasi lingua». Un romanzo libero. Una prova di letteratura scarcerata. Una sfida alle carinerie, al delizioso, a tutte le regole di buon governo e di correttezza. L'anno scorso Enrico Ianniello e il suo Isidoro Sifflotin che parlava fischiando come gli uccelli, si spinsero fino al premio Campiello per l'opera prima. Stavolta, Giordano Meacci scende con Apperbohr nell'arena dello Strega. Non è certo quello un luogo per sperimentatori, ma il suo cinghiale arriva pur sempre da Corsignano, dove tra la verità e la leggenda, vince la leggenda.

(da la Repubblica del 24 aprile 2016)

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