Di un tumore si deve parlare. Di un tumore si deve ridere. Prendiamo Luigi, quarantenne, una bimba
piccola, una moglie incinta. Quando scopre d'essersi ammalato - una massa al rene da asportare -
immagina un bel funerale laico fatto di amici spiritosi, perché in quelli cattolici non ci si concentra
abbastanza, la musica dell'organo distrae. La storia di Luigi vive attraverso la faccia magistrale di Valerio Mastandrea nella serie La linea verticale, otto episodi da 30 minuti, programmati due per volta ogni sabato, in prima serata su Rai3 dal 13 gennaio.
La storia di Luigi è quella capitata a Mattia Torre, uno degli autori di Boris, qui sceneggiatore unico e regista. "Da un giorno all'altro mi sono trovato di fronte a una diagnosi grave. Vedrai, mi dicevano, alla fine scriverai una grande cosa e io rispondevo: ma no, davvero, non ci penso proprio; e invece questo mondo dentro cui sono finito, si è rivelato interessante. Un reparto d'eccellenza della sanità pubblica. L'eccellenza commuove, arriva come un brivido".
Quando Mattia Torre racconta di sé, gli viene da parlare di Luigi. Un po' dice io, un po' dice "il mio personaggio". Cerca le parole giuste per rispondere, al tavolo del suo studio nel centro di Roma tocca la barra spaziatrice della tastiera e il computer restituisce un monologo di Luigi. "Mi spiace per lo spoiler - mormora - ma io da solo forse non ce l'avrei fatta a dirlo. Ho scritto un romanzo (per Baldini&Castoldi, da oggi in libreria, ndr) ma in terza persona, perché penso che la sovraesposizione del sentimento sia controproducente. Volevo farne un lavoro teatrale, poi Lorenzo Mieli di Wildside mi ha convinto, l'episodio pilota mi ha divertito ed è nata una serie che in Italia non ha riferimenti. Un'opera giocosa, festosa, senza angoscia. Spero che emozioni".
Mastandrea è perfetto. Cosa c'è di lei e della sua esperienza in quel volto?
"Valerio è un mio amico, veniva a trovarmi, sedeva accanto a me. Quando sul set abbiamo ricostruito
meticolosamente il reparto, ci è toccato un doppio shock, stavolta a parti invertite. È il suo occhio che
comanda, non le sue battute, il suo sguardo empatico, tragicomico, la sua condizione di pesce fuor
d'acqua. Volevo girare un medical al contrario, dalla parte di pazienti che si confrontano sull'emoglobina e di questo uomo che si aggrappa alla moglie e al primario Zamagna, visto quasi come un semidio. Un mondo alla Spike Lee. Vittorio Sermonti era stato prima di me in quel reparto e mi diede un consiglio. Lasciati andare, mi disse, a un abbandono vigile. Consegnati con fiducia a chi ti cura, ma ogni tanto getta un occhio alla cartella clinica".
E questo abbandono vigile che mondo crea?
"La malattia in ospedale non c'è. È come annullata. Perché lì dentro stai male alla pari degli altri, e dunque si produce una normalizzazione in cui prendono corpo il cazzeggio e il calore umano. Prima di entrarci, ti immagini un reparto di urologia oncologica come un epicentro di sofferenza. Invece se dimenticassi quanto stavo male, potrei finanche dire che mi sono divertito come un pazzo. Certe relazioni restano per sempre".
Nel primo episodio Luigi dice che la nota comica rende il dolore ancora più insopportabile.
"È l'iperbole di un dialogo. Però ora mi domando se inconsciamente non avesse un significato che non avevo colto. Il lato ludico e ironico di questa esperienza è stato per me un salvagente. Il mio compagno di stanza, un architetto elegantissimo, ogni tanto diceva di non sentirsi le gambe. È uno degli effetti della terapia. Eppure quando chiedeva spiegazioni, spuntava questo medico che aveva sempre la stessa risposta. Sono i vasi, ripeteva. Per noi è diventata una gag. Sono i vasi, era una spiegazione che facevamo andar bene per tutto, e ci capitava di riderne fino alle lacrime, col rischio che saltassero i punti. Nessuno potrebbe immaginarlo. Un reparto di oncologia è un curioso mondo in cui regna un'eguaglianza commovente, alla fine provi una specie di sindrome della montagna incantata, trovi che sia un luogo ideale, non vuoi lasciarlo".
Si sta peggio fuori?
"Ho avuto un crollo quando sono tornato a casa, come capita ai reduci del Vietnam a cui all'improvviso hanno portato via le coordinate. Fuori è più complicato, ti senti solo, non c'è più un campanello da suonare di notte, sei espulso da quel mondo rassicurante fatto di leggi proprie in cui ciascuno cerca la salvezza. Avverti la paura che provano gli altri, quelli che ti stanno attorno. In ospedale la paura non c'è. Il medico non ne ha, l'infermiere non ne ha, sono figure assuefatte alla paura, l'hanno esclusa dal loro ambito professionale. Ma fuori, appena sei fuori, percepisci questo sentimento umano, carino, apprezzabile, eppure goffo".
Un sentimento inopportuno, vuole dire?
"In ospedale ti senti un soldato accanto agli altri, poi esci e ti accorgi che la guerra vera sta lì, lontano dal fronte. Io ho avuto la fortuna di vivere questa esperienza con l'assistenza di una comunità di amici molto presente. Mezzo cinema italiano era intorno a me, e non essendo io un volto popolare, alla fine in reparto si domandavano chi davvero fossi. Perciò sono felice di aver trasformato questa disavventura in un progetto culturale, qualcosa di ironicamente sociologico".
Cos'è che vuole sentirsi dire un ammalato?
"Una verità che ho appreso è che se ne deve parlare. La cosa più dolorosa è la discrezione degli altri, la prudenza che diventa vigliaccheria sentimentale, il silenzio di chi ha paura di ferire. Invece è bello sentirsi chiedere: come stai? come va? Trattare il cancro come una cosa tra le altre. È una malattia spaventosa, diffusa ma curabile. Deve entrare nel nostro vocabolario. Non è un suono da cui lasciarsi spaventare. All'inizio avevo pensato di giocare su questa parola tabù che ci appartiene, questa sorta di censura che applichiamo al linguaggio evitando di pronunciarla. Pensavo di sovrapporre un bip ai dialoghi, come per le parolacce, ma con le musiche l'effetto peggiorava. Mi sono detto, lasciamola. Era fico andare dritti e pronunciarla".
"Conta la testa" insiste il cappellano del reparto. Lei ci crede che è così?
"Ci credi perché non sai quale sia la ricetta. Il primo passo è l'abolizione della paura. La paura ti mangia, non serve a niente. La vita è una faccenda complessa. Puoi salutare un amico, un attimo dopo attraversare la strada e finire sotto un tram, oppure campare venti anni da paziente terminale. Autocondannarsi allora è ridicolo. Questa tendenza a vivere con la paura addosso va contrastata più possibile. La linea verticale è la possibilità di stare in piedi, dritti, vivi. In orizzontale si muore".
La linea verticale è anche la rabbia che nel reparto ognuno scarica sul gradino inferiore della gerarchia. Esiste una rabbia del paziente?
"Emerge di notte, non si può separare dal percorso, ed è un sentimento interessante se non diventa ingestibile. Luigi trascorre 21 giorni in ospedale. Sono tanti. Le tensioni aumentano. Ma senza fare una didascalica morale, la malattia è un'occasione di rinascita, come ogni altra crisi. Può essere preziosa se non distrugge. Penso a un divorzio. Le crisi hanno una carica vitale. Io ne sono uscito più coraggioso. Ho fatto cose che mi avrebbero spaventato, come scrivere una serie da solo e dirigerla".
Torre, davvero si può ridere di tutto?
"Non lo so, ma so che la commedia può essere uno strumento per raccontare tutto. La risata è un mistero. Può essere piacevole, può essere un istante di abbandono, può essere una forzatura. La commedia salva la possibilità di affrontare argomenti seri senza diventare ridondanti".
E dopo la malattia, dopo, qual è lo spirito con cui si sta al mondo?
"Si torna a vivere con un senso del desiderio più chiaro. Capisci cosa davvero conta per te. È una cosa banale, eppure a volte sfugge. Cosa voglio veramente? Chiederselo e realizzarlo. Mia moglie lavorava in televisione, poi ha mollato tutto ed è diventata ostetrica a trent'anni. Ecco, io ora posso dire con certezza che senza questo tumore, sarei senz'altro morto".
(Il Venerdì, 8 dicembre 2017)
venerdì 15 dicembre 2017
domenica 10 dicembre 2017
Chiaroscuro di Ronaldo e di un'era del calcio
Fa una certa impressione scorrere la lista dei vincitori, contare i palloni d'oro di Cristiano Ronaldo e accorgersi che sono gli stessi di Eusébio, Zidane, Best, Ronaldinho e Roberto Baggio messi assieme. Se non fosse mai cambiato il regolamento – fino al 1995 potevano essere premiati solo calciatori europei – i trofei sarebbero dieci. Con la formula attuale è stato stimato che Pelé, nei suoi anni migliori, sarebbe arrivato al massimo a sette. Perciò o siamo davanti a un altro che è meglio ' e Pelé, oppure c'è qualcosa di profondamente mutato nei nostri occhi, nella maniera in cui abbiamo guardato il calcio in questi anni.
È la collezione di premi che spinge a farsi delle domande. Su noi stessi, non su di lui. Nessuno poteva negare il titolo di più bravo del 2017 all'uomo dei due gol in finale di Champions. Ronaldo è un accumulatore di gol e di esultanze uguali, uguali e globali, il saltello, le gambe larghe, le braccia spalancate; un moltiplicatore di attimi gloriosi per sé e per i suoi. È un calciatore che corre lungo la linea di mezzo fra spavalderia e arroganza, guadagna 84 milioni l'anno ma non ha smesso di voler diventare qualcos'altro rispetto al giorno prima, qualcosa in più. Chiamiamola umiltà, applicazione, forse ossessione. È diventato nel tempo una religione mediatica da 300 milioni di fedeli al mondo sulle reti social. I cristiani ortodossi, per intenderci, sono di meno.
È la collezione di premi che spinge a farsi delle domande. Su noi stessi, non su di lui. Nessuno poteva negare il titolo di più bravo del 2017 all'uomo dei due gol in finale di Champions. Ronaldo è un accumulatore di gol e di esultanze uguali, uguali e globali, il saltello, le gambe larghe, le braccia spalancate; un moltiplicatore di attimi gloriosi per sé e per i suoi. È un calciatore che corre lungo la linea di mezzo fra spavalderia e arroganza, guadagna 84 milioni l'anno ma non ha smesso di voler diventare qualcos'altro rispetto al giorno prima, qualcosa in più. Chiamiamola umiltà, applicazione, forse ossessione. È diventato nel tempo una religione mediatica da 300 milioni di fedeli al mondo sulle reti social. I cristiani ortodossi, per intenderci, sono di meno.
venerdì 24 novembre 2017
Massimo Ranieri, un Riccardo III di borgata
Il sovrano che un tempo avrebbe scambiato il suo regno per un cavallo adesso trama per la reggenza dei malaffari di famiglia in polvere bianca. Vive in un castello degradato alle porte di Roma, la borgata del Tiburtino III come terzo è lui, il re Riccardo, tra le pagine del dramma di Shakespeare. Nella reinterpretazione che Roberta Torre porta al cinema il 30 novembre, e in anteprima il 27 al Torino Film Festival fuori concorso, Riccardo di cognome fa Mancini e torna a casa a cospirare nell’ombra contro i suoi, contro il suo sangue e i fantasmi della sua infanzia, dopo anni di reclusione in un manicomio. Complotta cantando su note e parole di Mauro Pagani, perché Riccardo va all’inferno è un musical dark e allucinato, pop e letterario insieme, un film difforme, che non appartiene a nulla – filoni, modelli, tradizioni – se non all’identità estetica di Roberta Torre e a una sua ambiziosa evoluzione dai tempi di Tano da morire e Sud Side Stori.
Ma questo Riccardo III non sarebbe quel che è senza una interpretazione monumentale di Massimo Ranieri, che a 66 anni non s’è ancora stancato di esplorare zone in cui non era mai stato prima, di tradire la facile rendita di Rose Rosse e Perdere l’amore perché, come dice seduto nel suo studio, fra dischi e locandine alle pareti, «non sono mai stato solo quella persona lì, dentro di me c’è stato ogni giorno anche un altro Giovanni Calone, io faccio l’attore e l’attore è un ipocrita. Io mi sento ancora alla ricerca di una sfumatura che non avevo mai colto finora, nell’angolo più buio e sperduto di me, altrimenti non farei questo mestiere, e dico mestiere di proposito, non professione né lavoro. Fare l’attore non può essere un impiego. Forse questo ruolo spiazzerà il mio pubblico tradizionale, pazienza, di certo mi porterà a un pubblico nuovo».
Ma questo Riccardo III non sarebbe quel che è senza una interpretazione monumentale di Massimo Ranieri, che a 66 anni non s’è ancora stancato di esplorare zone in cui non era mai stato prima, di tradire la facile rendita di Rose Rosse e Perdere l’amore perché, come dice seduto nel suo studio, fra dischi e locandine alle pareti, «non sono mai stato solo quella persona lì, dentro di me c’è stato ogni giorno anche un altro Giovanni Calone, io faccio l’attore e l’attore è un ipocrita. Io mi sento ancora alla ricerca di una sfumatura che non avevo mai colto finora, nell’angolo più buio e sperduto di me, altrimenti non farei questo mestiere, e dico mestiere di proposito, non professione né lavoro. Fare l’attore non può essere un impiego. Forse questo ruolo spiazzerà il mio pubblico tradizionale, pazienza, di certo mi porterà a un pubblico nuovo».
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giovedì 23 novembre 2017
Identikit di un leader
mercoledì 15 novembre 2017
L'Apocalisse del calcio italiano
Prima di battere stasera la palla al centro, vale la pena ricordare a noi stessi chi siamo e cos'è oggi il nostro calcio, per provare a separare il grano dal loglio. Siamo arrivati a questa partita in compagnia dell'idea che tutto il movimento sia malato di mediocrità. Non è vero. Negli ultimi tre anni la Juventus è arrivata due volte in finale di Champions - le inglesi non la giocano dal 2012 - con la stessa difesa di questa Nazionale. Nelle Coppe europee l'Italia ha appena scavalcato la Germania, ora è terza, con due squadre fra le prime 15, la Juventus quinta e il Napoli tredicesimo. Sulla qualità di gioco del Napoli cascano complimenti da mezzo mondo; vero è che si tratta di una squadra per nove undicesimi fatta da stranieri, ma il meccanismo è merito di un toscano venuto dal nulla e oggi considerato un innovatore. Sarri non è un frutto nel deserto. Negli ultimi dieci anni tutti i principali campionati europei sono stati vinti almeno una volta da un allenatore italiano. È un settore in cui, come nella moda e nel cibo, questo paese tuttora vanta maestri eccellenti. Pure fra i 30 candidati al prossimo Pallone d'oro ci sono due italiani – Bonucci e Buffon – due come gli argentini, come i tedeschi, uno in più degli inglesi. Sembra davvero il ritratto di una pianta sterile?
sabato 21 ottobre 2017
Cosa c'entrano le muffe con il Barcellona
Quando Saba scriveva che «il portiere su e giù cammina come sentinella», mentre Pasolini considerava il calcio «l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», nel mondo delle lettere nessuno immaginava che dall'universo dei numeri sarebbero venuti a prendersi il pallone. Da sport narrato a sport analizzato. «Quando la matematica incontra il mondo reale può accadere di tutto», dice David Sumpter, londinese, insegnante di matematica applicata all'università di Uppsala, in Svezia. E cosa c'è di più reale del calcio? «Mettere in pratica una teoria è importante quanto conoscerla. Questa combinazione di teoria e pratica fa del calcio lo sport che amiamo così tanto». Nel tempo libero, Sumpter allena una squadra di bambini. Dice di amare la bellezza astratta delle equazioni e poi sporca la sua matematica con la realtà. Ha lavorato con biologi e sociologi, ha creato modelli quasi per tutto e scomposto il calcio per dimostrare che gli allenatori usano strategie simili a quelle con cui gli uccelli attaccano i vermi, i difensori tedeschi del Bayern si muovono come leonesse a caccia, il Barcellona attacca con le stesse reti che una muffa produce per nutrirsi. Le sue tesi sono in Soccernomics che esce ora in italiano con il titolo La matematica del gol: Sumpter spiega quante probabilità esistono di vedere una rete in un determinato minuto, o come lo schema della "ola" negli stadi sia per noi divertente, e per i pesci una questione di vita o di morte.
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venerdì 6 ottobre 2017
Viaggio in Neoborbonia, tra i nostalgici del Regno del sud
NAPOLI. Benso Camillo, conte di Cavour, madrelingua francese, presidente del Consiglio dell’Italia unita; Cialdini Enrico, generale maggiore dell’esercito piemontese che sparò su Pontelandolfo e Casalduni: voi siete i nemici della nazione meridionale, i malevoli avversari del Sud e del suo popolo. Che siano abbattuti i vostri busti e cancellati i nomi dalle strade. Mentre l’America vandalizzava le statue di Colombo e la Catalogna si ribellava a Madrid, nell’estate del passato da riscrivere il Mezzogiorno d’Italia ha scelto per obiettivo il Risorgimento, il «pezzo di storia rimosso», la perduta età dell’oro borbonica. Al Consiglio regionale pugliese il M5S ha promosso una «giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia e i paesi rasi al suolo» per il 13 febbraio, il giorno in cui nel 1861 cadde per ultima Gaeta. Lo stesso documento è apparso in Abruzzo, Molise, Basilicata, Sicilia, Campania; una carezza alla pancia di un orgoglio postumo, quello che Antonio Ghirelli in Storia di Napoli (1973, Einaudi) definiva uno «schermo vittimistico dietro cui si trincera la classe dirigente», eppure in grado di «suscitare una notevole risonanza sentimentale a livello di massa».
È nella capitale dell’antico Regno delle Due Sicilie che bisogna andare per provare a capire cos’è questa febbre così nuova e insieme anacronistica, questo sposalizio tra archivi e populismo, uso della memoria e ricerca del consenso. Il Movimento neoborbonico è nato nel 1993, quando la politica e la classe dirigente del Paese venivano decapitate dalle inchieste su tangenti e corruzione. Salvatore Lanza, il segretario generale, dice che non si tratta di piagnisteo. «L’obiettivo è ricostruire la verità per i figli di tutti i meridionali. Dopo ogni conflitto ci si siede a un tavolo e si discute di risarcimenti, con noi non è successo. Eravamo un regno modello».
È nella capitale dell’antico Regno delle Due Sicilie che bisogna andare per provare a capire cos’è questa febbre così nuova e insieme anacronistica, questo sposalizio tra archivi e populismo, uso della memoria e ricerca del consenso. Il Movimento neoborbonico è nato nel 1993, quando la politica e la classe dirigente del Paese venivano decapitate dalle inchieste su tangenti e corruzione. Salvatore Lanza, il segretario generale, dice che non si tratta di piagnisteo. «L’obiettivo è ricostruire la verità per i figli di tutti i meridionali. Dopo ogni conflitto ci si siede a un tavolo e si discute di risarcimenti, con noi non è successo. Eravamo un regno modello».
martedì 19 settembre 2017
Stefano Borgonovo raccontato da sua moglie Chantal
mercoledì 30 agosto 2017
Cronaca di lei
Facciamo un'enorme fatica a ricordare il nome di tre campioni del mondo da quando Mike Tyson ha lasciato la boxe, eppure non c'è ancora un altro sport che meglio si presti a mettere la cornice intorno a vite sfregiate o in bilico. Pare quasi che oggi resti il suo scopo principale, raccontare altro anziché raccontarsi. Milo Montero è allora il pugile perfetto per tutto questo, e un nome azzeccato fa il venti percento di una buona storia. Lo chiamano One Way perché il suo, sul ring e forse fuori, è un andamento a senso unico: avanzare, avanzare, avanzare perfino quando arretra, così da attirare gli avversari in trappola. One Way è più di un soprannome, via via è diventato un marchio, un brand come si dice. Alle soglie dei trent'anni, Montero ha aperto palestre, ha lanciato sul mercato una bibita con il suo nome, si vede offrire ruoli e programmi dalla tv. È un'industria che si regge sui suoi pugni, quelli che dà e quelli che deve evitare di prendere su un occhio che è il suo tormento dal giorno in cui dovette portarlo sotto i ferri di un chirurgo. Ha disputato un solo match negli ultimi dieci mesi, ma guidato negli affari da sua sorella Irene, ora può battersi in Germania contro il tedesco Mayer, per poi concedersi una chance mondiale in Italia contro un cinese.
martedì 22 agosto 2017
Il tennis visto dall'alto
Il povero signor James, Edward James, lasciò quella mattina del giugno ’81 la camera d’albergo e fece più o meno tutti i suoi gesti abituali, senza sapere ancora che invece stava arrivando un giorno speciale. Pettinò come al solito i capelli bianchi con la fila di lato, mise gli occhialetti e salì felice in cima al suo ufficio, un seggiolone a due metri d’altezza piazzato ai bordi del prato verde di Wimbledon, dove sarebbe finito per un istante e per sempre nella vita di John McEnroe, da lui insultato come “un pazzo incompetente”, “un’offesa verso il mondo”, anzi “the pits of the world”, come dire, la cosa peggiore sulla faccia della terra. “You cannot be serious”, non puoi dire sul serio. La frase con cui John protestò, così celebre da diventare il titolo della sua biografia e il marchio della sua fabbrica di neurodeliri, se la prese in faccia questo pacioso dentista gallese, con apprezzato studio nella città di Llinelli, ma per una trentina di settimane l’anno giudice arbitro di tennis. Il primo nella storia a uscire dall'anonimato.
martedì 15 agosto 2017
Napoli e l'equilibrio dei sacerdoti di frontiera
Puoi farti gli affari tuoi e vivere
cent’anni, oppure restare fedele a ciò per cui sei venuto al mondo. Esiste una
linea di frontiera, nel Mezzogiorno d’Italia, lungo la quale una tonaca da
prete può essere una divisa o un costume, il segno di una responsabilità e di
una promessa, o solo l’abito ben stirato di un esercizio. Dentro questo dilemma
con cui la debolezza di molti uomini si confronta in certi territori, indaga L’equilibrio, il nuovo film di Vincenzo
Marra, napoletano, 45 anni, che al prossimo festival di Venezia torna nella
sezione “Giornate degli autori” cinque stagioni dopo aver presentato Il gemello.
Come essere sacerdote quando intorno a te regna l’orrore?
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venerdì 11 agosto 2017
Gli orizzonti di Simone Inzaghi
Dopo il debutto in serie A, il 14 settembre del '98, di lui Gianni Mura scrive: "Credo che non sarà una meteora". Non lo è stato. Quasi vent'anni dopo, Simone Inzaghi è dentro una stanza di Formello a preparare la Supercoppa di domenica, una lavagna alle spalle, i magneti blu che marcano i rossi, la caccia al primo titolo da allenatore dopo i sette da calciatore, tutti con la stessa maglia della Lazio, dov'è arrivato 18 anni fa senza andarsene. "Eppure non saprei spiegare cos'è la lazialità a chi viene da fuori e non conosce Roma. Io vivo ai Parioli, che è come dire nel cuore di questo sentimento. Forse ho capito fino in fondo la malattia del tifo quest'anno, dopo tre derby vinti, una felicità che m'è parsa più grande di quella per scudetto e Coppe".
giovedì 10 agosto 2017
Le sorelle Misericordia
Cristiana Cammarata non ha nulla di speciale, nemmeno la speranza, vive la sua condizione di ammalata di Sla come una donna "che non ha paura della morte ma dell'agonia". Laura, sua sorella, invece ha tutto, o quasi. Gioca a tennis, è la numero quattro al mondo e sulla Rod Laver Arena di Melbourne sta battendo nella finale degli Australian Open addirittura Serena Williams. Quando alle spalle della statunitense vede apparire la Madonna, mette la pallina in tasca, raccoglie borsa e racchette e imbocca il tunnel, mormorando "non posso", per poi recitare a bassa voce le preghiere che la sua fede cattolica le porta all'istante sulle labbra. Le pare un segno, una chiamata: tocca a lei occuparsi di Cristiana, tornare in città, chiudersi in casa, farla finita con questa immagine di donna emancipata e ricca.
giovedì 27 luglio 2017
Napule è o ci fa
NAPOLI. E chi lo sa, chi può capirlo, come si tengono insieme le classifiche del Censis che piazzano gli atenei napoletani agli ultimi posti d’Italia con le parole di Lisa Jackson, vicepresidente di Apple, che nel polo universitario ha investito per creare un centro di sviluppo delle App iOS, «la migliore delle esperienze fatte da noi nel mondo». Chi può davvero cogliere il mistero della convivenza tra le stazioni del metrò dell’arte, tra le più belle d’Europa, e l’insofferenza dei napoletani in attesa dei treni, convinti che «non passano per non sciuparle». Questa è la città dove la cultura è diventata attrazione, dove i turisti crescono più che altrove, ma dove tutto resta precario e discutibile.
lunedì 24 luglio 2017
Il racconto del calcio secondo Adani
MILANO. Siamo pieni di allenatori che vorrebbero fare i titoli e di giornalisti che vorrebbero fare le formazioni, abbiamo avuto Vittorio Pozzo che era insieme c.t. e inviato per La Stampa, ma quando Daniele Adani ha detto no a Mancini per rimanere in tv, stava chiudendo un cerchio. Un uomo venuto dal campo che al campo preferisce le parole. Le telecronache, lo studio e pure le interviste, come quella a De Rossi, tra le più belle dell'anno. Su una poltroncina rossa nella sede di Sky a Rogoredo, parla di sport travolto da passione. "Da ragazzo non mi dedicavo tanto alla scuola, mi distraeva dal calcio, e quello sì che invece lo studiavo. Giocavo e cercavo di capire il perché di un movimento, di una posizione del corpo. Ho imparato nel mio paesino e in serie A. Ho imparato cose pure da gente che non stimo".
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venerdì 21 luglio 2017
Borg-McEnroe non finisce mai
giovedì 20 luglio 2017
Il film che Troisi non riuscì a girare
IL NUOVO film di Massimo Troisi è rimasto per 23 anni sotto chiave, commissionato pensato e scritto, «non chiuso in un cassetto perché c'erano già i computer», spiega adesso sorridendo Anna Pavignano, la sceneggiatrice che lo ha accompagnato da Ricomincio da tre del 1981 fino a Il postino nel 1994. Troisi non riuscì a leggere l'ultima versione del copione. Ora La svedese è un romanzo (Verdechiaro edizioni): storia di Livia, della sua infanzia ferita e del colpo di fulmine per Milo, uomo inafferrabile, sposato e distante 700 chilometri, per il quale vale la pena autodistruggersi, pur di mostrarsi fino in fondo libera. «Troisi mi chiese se avessi una storia che parlasse del modo di amare delle donne». Anna Pavignano dice raramente Massimo. «Una storia su un certo modo di abbandonarsi alla passione, al dolore, all'irrazionale. Gli piacque l'idea, finii di scriverla mentre girava Il postino».
venerdì 7 luglio 2017
De Giovanni e l'ultimo Ricciardi: "Fra due anni smetto"
Il tavolino numero dieci all'interno del Caffè Gambrinus è inaccessibile. "Riservato al commissario Ricciardi", c'è scritto sulle due facce di un segnaposto plastificato. Oggi, domani e nei secoli dei secoli. I clienti s'accostano, scattano una foto e vanno via. È qui che Maurizio De Giovanni porta il suo personaggio a fare colazione da undici anni e undici libri, dodici con il nuovo, "Rondini d'inverno", che Einaudi fa uscire in centomila copie: lunedì nel cortile del Maschio Angioino il primo incontro fra l'autore e quelli che non sono più lettori ma fans, se è vero che quattro associazioni organizzano tour guidati sui luoghi dei romanzi. «Fans dei personaggi, non miei», mormora lui, 59 anni, una delle voci più presenti della città, ora anche autore di teatro e sceneggiatore per la tv.
Il telefono che squilla, un tifoso che domanda del Napoli, un'ammiratrice che gli stampa un bacio. «Oggi concedersi a un selfie è parte dell'attività, eppure io non credo che uno scrittore debba avere una sua rilevanza personale. Ne hanno i suoi personaggi. Sono contento che sia conosciuto Ricciardi e che il tassista citi le sue frasi. Mi piacciono queste gioiose manifestazioni. Ma io cosa c'entro? Se a suo tempo avessi incontrato García Márquez, lo dico da lettore forte, credo che non lo avrei riconosciuto». Eppure, tutto questo finirà. Presto. «Nel 2020 smetto».
Il telefono che squilla, un tifoso che domanda del Napoli, un'ammiratrice che gli stampa un bacio. «Oggi concedersi a un selfie è parte dell'attività, eppure io non credo che uno scrittore debba avere una sua rilevanza personale. Ne hanno i suoi personaggi. Sono contento che sia conosciuto Ricciardi e che il tassista citi le sue frasi. Mi piacciono queste gioiose manifestazioni. Ma io cosa c'entro? Se a suo tempo avessi incontrato García Márquez, lo dico da lettore forte, credo che non lo avrei riconosciuto». Eppure, tutto questo finirà. Presto. «Nel 2020 smetto».
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venerdì 23 giugno 2017
Nino D'Angelo, quel sessantenne della curva B
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martedì 6 giugno 2017
La malinconia dei giornalisti
Nel 1922, per la morte volontaria del collega Francesco
Perotti, redattore capo del “Secolo”, Renato Simoni scrisse su “L’illustrazione italiana” un articolo
sul senso del giornalismo, sul conflitto tra l’io e il mondo che si può
accendere in chi lo pratica, su certe inquietudini nascoste da tenere al
guinzaglio, sul dovere di testimoniare, il rigore, il rispetto di sé e dei
lettori, e sulla scoperta improvvisa di non essere più adeguati. La malinconia
dei giornalisti.
***
“Un giornalista s’è ucciso. Chi ha conosciuto Francesco
Perotti, redattore capo del “Secolo”, spirito ordinato, chiaro fino alla
limpidezza, generoso come sono solo i forti, china la fronte commosso, davanti
al mistero di questa tragica stanchezza di vita. Ma noi, da anni, e da anni
posseduti da questo affascinante e logorante amore del giornale, sentiamo a
poco a poco la nebbia dissiparsi, comprendiamo con angoscia perché questo
nobile compagno ci ha lasciati. E non sono cause precise che scopriamo. Abbiamo
solo il sentimento del malessere grigio, che vien dall’eccesso della nostra
fatica, dallo sfaldarsi cotidiano della nostra personalità, che di questa
fatica è la conseguenza. La carta bianca è crudele con tutti; con noi è crudelissima.
lunedì 5 giugno 2017
Jeffery Deaver e il suo romanzo napoletano
Per i suoi vent'anni di indagini, Lincoln Rhyme s'è regalato una missione in Italia. Era il 1997 quando il detective tetraplegico della polizia scientifica di New York incontrava Amelia Sachs, mettendosi con lei sulle tracce dello spietato "collezionista di ossa". Jeffery Deaver, il suo papà letterario, nell'ultimo libro "Il Valzer dell'impiccato" (Rizzoli), lo ha messo su un aereo e spedito a Napoli, dall'altra parte dell'Oceano, a seguire le tracce di un torturatore che usa una tetra melodia per i suoi crimini. "Lo avevo promesso. Ho mantenuto l'impegno ", dice Deaver, 67 anni appena compiuti, autore prolifico come pochi altri, sei anni fa cooptato tra gli scrittori incaricati di far continuare a vivere James Bond dopo Ian Fleming.
Signor Deaver, perché il suo Rhyme viene a risolvere un caso in Italia?
"Perché sono sempre stato onorato di ricevere premi da voi, dove sono apprezzato più che altrove. Per molti anni mi ha stuzzicato l'idea di ambientare un libro in Italia. Mi sono deciso quando a Courmayeur mi hanno dato il premio Raymond Chandler. Ecco, lì ho capito che era arrivato il momento giusto".
mercoledì 10 maggio 2017
Irregolarità nel tesseramento di Maradona: revocati gli scudetti al Napoli
10 maggio 1987-2017: 30 anni scudetto Napoli |
L’uomo che dovete immaginare ha un telefono tra le mani. Un fisso. Il filo attorcigliato. È seduto alla scrivania del suo ufficio – l’uomo, non il telefono. Fa il produttore. È ricco, frequenta donne magnifiche e per punizione la vita lo costringe a parlare con gli Arteteca. Questo sta facendo, adesso. Parla con loro. Discutono di soldi, o forse di battute da pronunciare nel prossimo film di Natale. L’uomo dialoga senza troppo trasporto. Senza passione, si direbbe. Con sofisticato distacco. È lavoro. Se al lavoro si dona la passione, il lavoro se ne approfitta.
Nella stanza accanto, una donna su una orribile sedia girevole bianca. Ha un computer acceso di fronte a sé. Un vasetto di vetro in cui sono infilati due evidenziatori – uno giallo, uno verde – una matita, una manciata di semi che profumano di qualcosa, un tubetto di colla. Un foglio Excel aperto sullo schermo. L’icona di facebook in basso a destra. Senza troppi svolazzi: il cliché della segretaria. Con le unghie lunghe smaltate di bianco digita sul centralino tre cifre. L’interno del Dottore. Lei lo chiama così da tanto tempo. Dottore.
“Una telefonata urgente per lei”, gli dice.
Più urgente degli Arteteca, vorrebbe aggiungere.
Il Dottore allora chiude il primo fronte, commuta la propria personalità sulla modalità Presidente di squadra di calcio, alza il telefono e ascolta. Non fa altro. Ascolta. Sarà passato un minuto ma pare un’eternità. Un minuto in cui fissa il vuoto, recepisce, incamera, assembla e partorisce in estrema sintesi la propria replica.
“Nun me ne po’ frega’ de meno”.
Le istituzioni invece possiedono meno romanticismo. Così la Federcalcio, al Napoli, li tolse tutti e due. Con un comunicato ufficiale, che seguì di circa 30 minuti l’anticipazione della notizia data in privato al Presidente, e di altri 10 una breaking news lanciata da Gianluca Di Marzio sul suo sito e nel sottopancia da Sky, la giustizia sportiva dichiarava revocati il titolo di campione d‘Italia del 1987 e del 1990. Proprio nel giorno dell'anniversario. Una crudeltà mascherata da giustizia.
Nella stanza accanto, una donna su una orribile sedia girevole bianca. Ha un computer acceso di fronte a sé. Un vasetto di vetro in cui sono infilati due evidenziatori – uno giallo, uno verde – una matita, una manciata di semi che profumano di qualcosa, un tubetto di colla. Un foglio Excel aperto sullo schermo. L’icona di facebook in basso a destra. Senza troppi svolazzi: il cliché della segretaria. Con le unghie lunghe smaltate di bianco digita sul centralino tre cifre. L’interno del Dottore. Lei lo chiama così da tanto tempo. Dottore.
“Una telefonata urgente per lei”, gli dice.
Più urgente degli Arteteca, vorrebbe aggiungere.
Il Dottore allora chiude il primo fronte, commuta la propria personalità sulla modalità Presidente di squadra di calcio, alza il telefono e ascolta. Non fa altro. Ascolta. Sarà passato un minuto ma pare un’eternità. Un minuto in cui fissa il vuoto, recepisce, incamera, assembla e partorisce in estrema sintesi la propria replica.
“Nun me ne po’ frega’ de meno”.
***
Quando una voce ferma e contrita comunicò la sciagurata notizia al Calcio Napoli, la città stava celebrando gli 880 anni della presa di Ruggero il Normanno, i 370 della Repubblica Napoletana, i 280 del teatro San Carlo, gli 80 anni della Mostra d’Oltremare, i 50 della morte di Totò e con rispetto parlando, senza offesa per nessuno, i 30 anni dello scudetto. Ricordare è la cosa che a Napoli riesce meglio. Ma chissà perché, pur avendone vissuti due, i napoletani dicono: lo scudetto. Al singolare. Come se fosse esistito solo il primo, il lavacro collettivo di un lungo scuorno, sufficiente a saziare la fame di successi passati e futuri. Lo scudetto. Quello là. 10 maggio '87. Le istituzioni invece possiedono meno romanticismo. Così la Federcalcio, al Napoli, li tolse tutti e due. Con un comunicato ufficiale, che seguì di circa 30 minuti l’anticipazione della notizia data in privato al Presidente, e di altri 10 una breaking news lanciata da Gianluca Di Marzio sul suo sito e nel sottopancia da Sky, la giustizia sportiva dichiarava revocati il titolo di campione d‘Italia del 1987 e del 1990. Proprio nel giorno dell'anniversario. Una crudeltà mascherata da giustizia.
lunedì 8 maggio 2017
Le parole di chi ha scalato l'Etna
"'A Muntagna. Sembra lì per caso, per miracolo, per finta. Come un Everest precipitato in mare, come un K2 emigrato nel Mediterraneo, come un Annapurna sprofondato a sud. 'A Muntagna è l'Etna: divinità prima che vulcano, gigantesca e operosa officina degli dei prima che prepotente e miracolosa basilica della natura, inarrivabile olimpo o paradiso prima che arrivo ciclistico soprannaturale" [1]. "Il puntino rosso, il cratere sulla cima dell'Etna, ci sembra un cero acceso davanti alle nostre speranze. Il mare di raso, il vulcano, la campagna fiorita a perdita d'occhio, scrive un colorista, hanno già vinto. Ma i coloristi sono le modiste del Giro e all'uomo della strada non basta. Il fuoco degli ospiti non cova soltanto sotto la cenere. Divampa imperioso" [2].
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venerdì 5 maggio 2017
La Sardegna del Giro d'Italia
Il Giro d'Italia in Sardegna nel 1961 |
"L'attesa è finita. Oggi si parte. E il vecchio suiveur lascerà la poltrona e si apposterà lungo la strada. Il Giro è una straordinaria esperienza iniziatica. Perfino il cronista vibra mettendo la faccia al sole, come uno scriba che, lasciato il suo foglio di papiro, s'imbatta nella principessa egiziana Nefertiti. Il sole accende già miraggi. E i campioni sono umbratili e teneri come i purosangue di rango. Nella vigilia mille pensieri deflagrano. Il presentimento e la speranza si contendono i cuori. Il volto del corridore è ancora rotondo. La pelle è morbida e lucida come il velluto di seta: la fatica non l'ha ancora abrasa" [1].
Ventiquattro ore prima della partenza del Giro, i pessimisti tradizionalmente tacciono. E' d' uopo vedere rosa, sosteneva Armando Cougnet, anche perchè le pagine della Gazzetta sono di un rosa antico, delicato, ma non stinto, che non ingiallisce. [16]
“Pronte sono le biciclette lustrate come nobili cavalli alla vigilia del torneo. Il cartellino rosa del numero è fissato al telaio coi sigilli. Il lubrificante le ha abbeverate al punto giusto. I sottili pneumatici lisci e tesi come giovani serpenti. Saldati i bulloni, disposto alla esatta inclinazione il sellino, calcolata al millimetro l’altezza del manubrio. (…) Ci sono tra di voi dei formidabili guerrieri. Quando si parte per una nuova guerra, anche nel cuore più umile possono entrare speranze immense. Non si sa mai. (…) Tutto veramente ricomincia, tutte le carte sono ancora coperte e una illusione ugualmente intensa fluttua senza parzialità sopra i partenti”.[2]
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mercoledì 3 maggio 2017
Noi e i maccheroni di Ettore Scola
Rotonda Diaz. Scola sul set con Mastroianni e Lemmon |
La rappresentazione di Napoli al cinema/1
Questo il quadro. Ottobre 1985. E arriva Maccheroni. Regia del maestro Ettore Scola.
sabato 15 aprile 2017
Il terzo funerale di Totò
La bara entrò nella basilica sulle spalle di certi uomini, d’onore. La figlia del defunto se ne stava seduta in prima fila, gli occhi sgranati, l’abito nero. Piangevano tutti, parenti e amici, piangevano pur sapendo che il morto in verità non c’era. Ai piedi dell’altare di Santa Maria della Sanità vuota era la cassa, perché Antonio Angelo Flavio Comneno Grippa Focas Lascaris di Bisanzio, principe della risata sotto la maschera di Totò, aveva già preso congedo dai suoi cari per due volte, salutato e sepolto, e al terzo funerale stavolta era presente solo per finta. Una specie di ultimo show.
venerdì 17 marzo 2017
La commedia nera di Francesco Recami
sabato 11 marzo 2017
Vita da osservatore: come si scopre il calciatore giusto
foto da davidefanizza.it |
giovedì 9 febbraio 2017
Sanremo e la scomparsa delle canzoni nonsense
Le Figlie del Vento (Sanremo 1973) |
sabato 4 febbraio 2017
Naples '44
Un gigantesco emporio. Un iperbolico postribolo. Un formicaio umano. Questa è Napoli, così appare a un trentacinquenne graduato dell’intelligence inglese, aggregato alla V armata americana dopo l’armistizio. "Napoli odora di legno bruciato" annota all’arrivo il 6 ottobre del 1943 sul suo diario l’ufficiale Norman Lewis. Era stato un nemico, arrivava da liberatore, se ne andrà da complice un anno dopo. Non fa in tempo ad assistere al mito delle 4 Giornate, l’insurrezione popolare contro i tedeschi, perché è ricoverato a Paestum per malaria. Scopre un popolo “ricaduto in condizioni di vita da Medioevo”. Eppure l'uomo non è schizzinoso e neppure ingenuo. Ha sposato la figlia di un giocatore d'azzardo siciliano, sollevandola con un contratto da ogni obbligo di fedeltà coniugale. L'ha salutata a Cuba e s'è arruolato per lo sbarco di Salerno. Ha viaggiato e ancora viaggerà. Diventerà il più bravo di tutti nel cogliere la complessità di Napoli e nel raccontarla.
venerdì 27 gennaio 2017
La notte che Tenco: i giornali, Quasimodo e Gatto
C’è chi dice che il festival è in periodo di stasi, in fase involutiva; si è dilatato troppo, a vuoto, e rischia di sgonfiarsi in fretta o di scoppiare, ancora più in fretta. C’è chi dice, con maggiore ottimismo, che ci sono i segni di una trasformazione radicale. Il primo di questi segni – se n’è già parlato – è la presenza di tanti giovani nelle giurie [2].
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sabato 21 gennaio 2017
Quel napoletano di Shakespeare
Luigi Credendino nello spettacolo Mal'essere di Davide Iodice |
NAPOLI. To be or not to be. O si’ o nun si’. O sei o non sei, si tormenta Amleto, non più in inglese ma nella sua seconda lingua. “That is ’a questiòne”, con l’accento sulla lettera “o” e la schwa finale “si è cchiù nobbile pe’ ’sta capa o mind / suppurta’ ’e ppetriate o ’e frezze ’e ’sta ciorta / ca parla tuosto or to take ll’arme. Trip muri’ o sleep durmi’”. Qui Napoli, casa Shakespeare. A metà strada fra il rione Sanità e la zona di Forcella, durante le prove nella mansarda del teatro San Ferdinando, il principe di Danimarca parla nel dialetto che incantava Wagner, anche se i tempi di Era de maggio sono lontani perché “il napoletano si trasforma, il rap tronca le sillabe e offre una nuova ipotesi di lingua”. Così dice Sha One, uno dei nomi dell’hip hop cittadino che hanno riscritto Amleto nella loro grammatica. Gli altri sono i Fuossera, Joel, Op Rot e Capatosta, interpreti di una scuola esplosa nella scia dei 99 Posse. Vengono da Piscinola, Marianella, Secondigliano, una porzione di terra spesso sintetizzata sotto il tag Gomorra, e firmano con il regista Davide Iodice l’atteso Mal’essere, debutto il 1° febbraio, produzione del teatro Stabile di Napoli – teatro Nazionale. “Questo Amleto non risponde a un’esigenza di localismo. Non avrei potuto metterlo in scena in italiano”, spiega Iodice, “perché è una lingua con una carenza di visceralità. Il napoletano è invece lingua-corpo, e la cadenza del rap in dialetto è la cosa più vicina oggi al blank verse della poesia classica d’Inghilterra”.
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domenica 8 gennaio 2017
Mannheim e i 200 anni della bicicletta
MANNHEIM. In un giovedì di fine primavera, il figlio del giudice di Baden uscì di casa con il peso dei suoi quattro nomi, un titolo di barone che non vedeva l’ora di ripudiare e un attrezzo di legno che fece ridere i passanti. Aveva due ruote, otto raggi, un sellino e l’ambizione di proporsi come alternativa al calesse. Il 12 giugno saranno passati duecent’anni dalla prima passeggiata, e se questo 2017 nasce nel segno della bicicletta, bisogna tornare dove tutto cominciò, tra il Reno e il Neckar, a Mannheim, città che alle strade del suo centro urbano non ha dato nomi ma numeri e lettere. Karl Friedrich Christian Ludwig Freiherr Drais von Sauerbronn partì dal blocco M4, dove oggi sono disposte decine di uffici dentro cubi di mattoni rossi e bianchi, e dove allora, a poche centinaia di metri, aveva abitato la signorina Constanze Weber, andata in moglie a un ventunenne musicista di un certo talento, di nome Wolfgang e di cognome Mozart.
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