Il telefono che squilla, un tifoso che domanda del Napoli, un'ammiratrice che gli stampa un bacio. «Oggi concedersi a un selfie è parte dell'attività, eppure io non credo che uno scrittore debba avere una sua rilevanza personale. Ne hanno i suoi personaggi. Sono contento che sia conosciuto Ricciardi e che il tassista citi le sue frasi. Mi piacciono queste gioiose manifestazioni. Ma io cosa c'entro? Se a suo tempo avessi incontrato García Márquez, lo dico da lettore forte, credo che non lo avrei riconosciuto». Eppure, tutto questo finirà. Presto. «Nel 2020 smetto».
De Giovanni, calma. Lei è celebre per avere una prolificità degna di Simenon. Che sta succedendo?
«Vorrei semplicemente andarmene in pensione. Ancora due libri di Ricciardi fino al 2019 e due del ciclo I Guardiani che Cattleya porterà in televisione. Altri quattro dei Bastardi di Pizzofalcone perché preparano una seconda serie tv, e dopo basta. Di Camilleri ce n'è uno".
Anche lei, come Camilleri con Montalbano, conserva da qualche parte la pagina finale?
«Non l'ho scritta ma la conosco. So già cosa accadrà a Ricciardi. Noi scrittori non siamo proprietari dei personaggi. Loro esistono. I miei non sono maschere, invecchiano, e nei seriali non succede spesso. Montalbano e Maigret hanno sempre gli stessi anni. Ricciardi è un uomo in cammino, la sua educazione sentimentale non si arresta. Attualmente è nel 1933, con i prossimi due romanzi aggiungerà ancora un anno e mezzo alla sua vita. Così finiamo a ridosso dell'autarchia, dell'impero, quando comincia una fase politica che condurrà l'Italia alle leggi razziali e alla guerra. Ecco, Ricciardi in guerra io proprio non riesco a immaginarlo, alla luce di ciò che so gli capiterà nei prossimi romanzi».
Il segnale di una svolta si intuisce già in questo libro, con l'omicidio di un'attrice sul palcoscenico di un teatro e un drammatico finale per il commissario. È faticoso tenere in vita Ricciardi?
«Non avverto nessuna stanchezza. Potrei avere una storia nuova di Ricciardi ogni mese. È un contenitore dentro cui mettere qualcosa. Non ho mai avvertito il terrore della pagina bianca. Non sono cambiati i miei ritmi o le mie abitudini. Impiego sempre 30 giorni per scrivere un romanzo. È come andare in villeggiatura nello stesso posto e ritrovare i soliti amici, vivere una storia d'amore, poi alla fine saluti e te ne vai, sperando di tornare presto. Ho scritto a maggio una storia ambientata a Capodanno nel mondo della rivista, perché lì ci sono tutte le sfumature dell'esistenza. Libero Bovio sosteneva che ogni canzone deve avere una trama. La canzone napoletana è bella perché è varia. Fa commuovere, fa ridere, denuncia. Ha uno spettro di sentimenti così vasto che mi era impossibile non considerarla per un romanzo. Ma stavolta, alla fine della scrittura, ho fatto fatica a rientrare dentro la vita normale».
Comincia a sentirsi prigioniero dei suoi personaggi?
«Come potrei? Non posso diventare prigioniero di personaggi che frequento per un mese. Io li vedo solo quando li racconto, subito dopo mi mancano e torno da loro. A far del male alla letteratura italiana è l'autore che racconta sé stesso sotto mentite spoglie. Io sono diverso da Ricciardi e dai Bastardi. Racconto le storie degli altri facendo un passo indietro. Il punto è che non sopporterei la noia della gente. Voglio smettere prima di leggere nei loro occhi la mancanza di entusiasmo. È bello chiudere quando i lettori hanno ancora voglia di te. Cos'è successo nel calcio inglese? Se Ranieri avesse lasciato il Leicester dopo il titolo, se ne sarebbe andato da campione. L'addio perfetto è questo».
Un altro dei suoi personaggi è la città. Enzo Moscato ha detto: "Detesto chi è di Napoli e vuole parlare di Oslo". La pensa così pure lei?
«Ogni libro è un viaggio, un esempio di realtà virtuale. Mentre si guarda la televisione si può stare contemporaneamente su facebook. Ma quando si legge, si vive un'esperienza assoluta. Lo scrittore è una guida. Si può avere come guida una persona che non conosce il posto in cui ti ha portato? Lo so che Salgari non si era mai mosso dalla sua scrivania ma il mondo che voleva raccontare lo conosceva benissimo, e così Dick, e Asimov. Io vivo in un luogo che è il più grande contenitore di storie. Una storia non è che una differenza di energia nel passaggio da uno stato precedente a uno successivo. La differenza può essere causata da una morte, un amore, un cambiamento psicologico. Napoli è una città piena di conflitti e di contrasti. E io non dovrei raccontarla?».
Mai avuto voglia di un'ambientazione differente?
«Sono affascinato dalle metropoli, specie quelle dell'era pre-Internet. Forse mi interesserebbe una storia che si svolge in un paesino della Basilicata negli anni '60 o in una megalopoli del nord Europa. Ma potrebbe essere solo la storia per un romanzo singolo. Per una serie o un ciclo, mi viene in mente solo Napoli».
Cosa farà quando avrà scritto l'ultima pagina?
«Potrei scrivere per il teatro. Potrei avere nostalgia di Ricciardi e dopo cinque anni ricominciare. Non lo so. Ma oggi mi pare che un romanzo sia un'espressione algebrica in cui uno scrittore è creativo solo nel primo passaggio: tre quarti per due terzi più un ottavo, eccetera eccetera. Dopo aver disposto tutte le forze in campo, deve lasciarle muovere da sole. Uno scrittore onesto svolge l'espressione e si tiene il risultato che gli viene. Se lo cambia, è scorretto. E allora non è giusto continuare a scrivere istericamente solo perché si vende. I personaggi non sono il bancomat di uno scrittore».
(la Repubblica, 6 luglio 2017)
Nessun commento:
Posta un commento