Il romanzo è uscito a marzo. Perché tutto questo tempo?
«Non ero certa di volerlo pubblicare, mi sembrava di approfittare di un legame. Mi ha convinto un'amica. E non ne ho mai parlato alle presentazioni. Durante uno di questi incontri, Luciana Littizzetto ha detto al pubblico: sarebbe un bel film. E io zitta. Poi, durante un recente trasloco, è spuntato da una cartellina di mia madre un articolo uscito su La Voce di Montanelli nel '94, in cui si faceva cenno al progetto. M'è parso un segno».
Cosa c'è di Troisi nel Milo del romanzo?
«Lui sarebbe stato il produttore e il regista del film. È un personaggio in cui c'è qualche pezzo di lui, certo, così come in Pensavo fosse amore... Un Troisi che già non era più il timido di Ricomincio da tre, anche perché nella vita era diventato più sicuro, meno impacciato, non più il ragazzo che si domandava come parlare alle donne. Il successo non lo aveva cambiato ma era diventato uno splendido quarantenne consapevole. Non stavamo più insieme: faceva meno tenerezza ma era più seducente».
Parla di lui sempre con questo tono sommesso?
«Non so com'è il mio tono, so che sono stata felice di averlo incontrato nell'ultimo momento in cui era privo di popolarità. Non sono stata influenzata dalla sua immagine. Era carismatico, non riusciva a essere banale neppure quando parlava di cose comuni. Sapeva come impreziosirle. Io buttavo giù racconti con qualche ambizione quando ci conoscemmo, avevo cominciato sotto la spinta di un'insegnante delle scuole medie che mi incitava a scrivere — diceva lei — non di accadimenti ma di sentimenti. Ero una comparsa degli studi Rai di Torino per il programma di Enzo Trapani che avrebbe lanciato la Smorfia, e lui stava lì, mescolato a noialtri perché quello era il clima, nessuno sapeva bene chi fosse l'altro».
"Ricomincio da tre" fu il film della vostra storia d'amore?
«Non era la nostra storia, era la storia delle nostre discussioni, dei ragionamenti che facevamo sull'amore, sulla coppia, la crescita, la consapevolezza personale. Certe cose sono attualissime. Quando rivedo la scena finale, quella in cui un ragazzo considera che potrebbe accettare una paternità non sua, penso che si trattava di una visione avanzata per l'epoca, ma pure che l'Italia da allora non s'è molto evoluta».
Che Troisi avremmo visto ancora dopo "Il Postino"? Un Troisi più politico?
«Aveva intenzione di cambiare e di trovare un nuovo punto di vista, nuove cose da raccontare. Pensavo fosse amore era la chiusura di un discorso. Il postino sembra un film isolato perché era il primo di una nuova era che doveva cominciare. Avrebbe parlato di poesia, sarebbe tornato all'impegno sociale, quello della Smorfia, quando raccontava la società attraverso il personale. Era l'ambizione degli anni '70: cambiare le persone affinché cambiassero il mondo. Di certo, dopo il '94, Troisi avrebbe avuto cose originali da dire sulla politica italiana, alla sua maniera».
Cosa c'è nel romanzo della vostra vita insieme?
«Forse la coscienza che si mette via il dolore per salvarsi. Lo facciamo tutti: anziché affrontarlo, fingere che non sia successo niente, fingere che un lutto o un'assenza non abbiano lasciato tracce. È il segno della sua vita su di me. Avevamo un rito nostro. Andare a vedere insieme ogni nuovo film di Woody Allen, il regista in cui più si riconosceva. Andavamo al primo giorno, al primo spettacolo perché di sera, diceva Troisi, c'è troppa gente. Ho continuato dopo, io, a vederli tutti. E' l'unico autore del quale non ho perso nulla».
C'è un regista italiano in cui rivede lo sguardo di Troisi?
«Non so, non mi pare. Forse con Virzì si sarebbe trovato bene. Nei suoi film c'è la stessa disposizione a parlare di temi rilevanti con ironia e profondità. Ecco, ora che lo dico me ne convinco: credo che gli sarebbe piaciuto lavorare con Virzì».
(uscito su Repubblica il 19 luglio 2017)
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