giovedì 9 febbraio 2017

Sanremo e la scomparsa delle canzoni nonsense

Le Figlie del Vento (Sanremo 1973)
Sul palcoscenico vetrina del festival della Nazione, sfila la galleria completa di quel che l'Italia sente di essere diventata. C'è il più classico dei presentatori di oggi, c'è la più teen delle signore della tv, ci sono i reucci della canzone di ieri, i rapper più rassicuranti di cui disponiamo, gli emergenti, gli emersi, i riemersi, i sommersi, i dispersi. I divi ingaggiati per campagne di solidarietà. Il campione del pallone. Lo spacco che spacca le donne. Insomma ci siamo tutti. Proprio tutti. Quasi tutti. Mancano i figli di Piripicchio e Piripicchia.

Piripicchio e Piripicchia apparvero al festival del 1954, quando le canzoni si sentivano ancora soltanto alla radio. Quattro trentenni che Guccini avrebbe poi definito "i Beatles italiani" si presentarono per la prima volta a Sanremo con questa canzone fatta di piripiripì e piripiripà. Con uno dei suoi tipici pezzi spiritosi e intelligenti, il Quartetto Cetra smuoveva fin dalla quarta edizione il pantano delle mamme del mondo, dei viali d'autunno, delle colombe in volo e dei fiori donati a Nilla Pizzi. I più colti già sapevano per conto loro che tutto il nonsense è colmo di senso. Lo avevano imparato innanzitutto dalla letteratura inglese. Solo pochi anni prima Disney l'aveva scaraventato tra i bambini traducendo in disegni animati la Alice di Lewis Carroll. Paradossi logici, linguistici, semantici. Tra ragazze che non avevano l'età e lacrime sul viso, finanche la canzone italiana trovava la forza di avventurarsi su terreni tanto sdrucciolevoli. Mentre Celentano si stava spingendo fino a Prisincolinensinainciusol, il Sanremo del '73 si regalava le Figlie del Vento e il picco di Sugli sugli bane bane tu miscugli le banane. 

Un po' per moda e un po' per non morire, Sanremo avrebbe piano piano aperto il palco a passaggi che corteggiavano il genere o che avevano l'ambizione di andare in quel senso. L'anno dopo l'esibizione surreale di Rino Gaetano con la sua Gianna, il festival aprì il concorso a Beruschi (Sarà un fiore), Fanigliulo (A me mi piace vivere alla grande e già / girare tra le favole in mutande) e i Pandemonium (Tu fai schifo sempre). Tutti insieme. Fatalmente. Era il 1979. La televisizzazione progressiva di quel che era stata una rassegna musicale stava cooptando in via definitiva la provocazione dentro lo show, strozzando nella culla il suo potenziale eversivo. Freak Antoni se ne andò dagli Skiantos perché nel 1980 il gruppo intendeva presentare Fagioli al festival. L'avanguardia correva il rischio di essere triturata dentro un gioco sociale: come trasformare il disturbo in un elemento necessario. La provocazione da stemperare dentro un più innocuo umorismo. I comici più popolari del momento poterono così via via diventare una presenza naturale in gara, da Marisa Laurito a Francesco Salvi, da Paolo Rossi a Sabina Guzzanti. Un'incursione di Armando De Razza e una serenata di Marco Carena, mentre il clarinetto di Arbore riusciva a sfiorare la vittoria e il Garibaldi innamorato di Sergio Caputo passava sul palco senza alcuno scandalo.

L'effetto macedonia non è più stato un inciampo, ma cercato e voluto. Il papa nero dei Pitura Freska capita nello stesso anno in cui vengono premiati i Jalisse. La satira musicale è parte dell'arredo, anche se poi gli Statuto si piazzano ultimi e i Figli di Bubba quasi. Di certo gli Squallor a Sanremo non li abbiamo visti mai (nemmeno Clem Sacco) e l'uso colto del nonsense sarebbe tornato con gli Elii, dalla terra dei cachi alla canzone mononota, fino alle sette canzoni racchiuse dentro "Vincere l'odio" di un anno fa. Quest'anno pazienza, il nonsense s'è preso un sabbatico. O forse è nascosto altrove e non lo vediamo.

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